Punti di Vista | Alfredo Nepa, vicepresidente Giovani imprenditori Confindustria Teramo

In aumento il fatturato dell’industria italiana. E il recupero di marginalità?

L'Italia di oggi è piena di risorse, ma la sua capacità di creare ricchezza è ancora ben lontana dai fasti degli anni ‘80 del secolo scorso. In buona misura, questo impoverimento è dovuto da quel che a livello internazionale viene definita come la crisi del modello economico neoliberista; ma per quanto riguarda l'Italia, la situazione si aggrava a causa di un apparato politico-intellettuale che considera l'impresa privata ancora come una minaccia anziché un'opportunità.
Alfredo Nepa | Vicepresidente Giovani imprenditori Confindustria Teramo.

A fine gennaio, l’Istat ha comunicato che nel 2017 il fatturato delle industrie italiane è aumentato del 5,1%.

Più di un giornale, diversi politici e anche qualche economista, hanno commentato la notizia come la prova dell’uscita dell’Italia dalla crisi economica.

Niente di più falso. Nell’era dell’economia globale caratterizzata da iper-competizione, saturazione e stagnazione di mercato, considerare l’aumento di fatturato dell’industria manifatturiera (la quota più rilevante del Pil–prodotto interno lordo) come il parametro che attesta la ripresa o la condizione di salute del sistema economico-industriale italiano può essere un azzardo e un errore.

Ai giorni nostri, la crescita di fatturato è un elemento che va preso con molta cautela. In termini generali, aumentare le quote di mercato attraverso maggiori vendite, può significare maggiori ricavi, ma non sempre maggiori utili (specie nel mercato interno).

Anzi, in questi anni, per molte aziende, soprattutto nel comparto delle piccole e medie imprese dei settori manifatturieri maturi (tradizionali) – per effetto della crisi e dell’eccesso di offerta che ha buttato giù i prezzi di vendita – maggiore fatturato ha significato molto spesso maggiori perdite.

Non a caso, i dati preliminari sull’inflazione dell’Eurozona a febbraio, sono ancora critici e confermano la persistente debolezza dell’indice dei prezzi al consumo che rappresenta un allontanamento dal target del 2% fissato dalla Banca centrale europea.

Attenzione: il problema riguarda naturalmente le vendite sottocosto a cui sempre più aziende sono costrette; ben venga invece, quel fatturato generato da prezzi di vendita in grado di coprire tutti i costi e garantire un margine di guadagno sicuro ed equo.

Quindi per un’analisi più aderente alla realtà bisognerebbe considerare non tanto il fatturato quanto piuttosto l’utile d’esercizio, cioè la marginalità reale, quello che l’impresa si mette in tasca dopo aver pagato le materie prime, la produzione, i dipendenti, eventuali leasing su macchinari o capannoni e le tasse. Un parametro questo, capace di determinare la crescita dell’azienda, il suo valore, e più in generale lo stato di salute di un’economia di produzione manifatturiera.

Tuttavia in Italia tale parametro (ed è questo l’aspetto più drammatico), negli ultimi 15-20 anni è diminuito a livelli non più sostenibili, fino anche ad azzerarsi. Un’azienda che non guadagna, non ha la possibilità d’investire, fare ricerca, riorganizzarsi.

L’unico epilogo possibile è il fallimento, ma intanto, nel vano tentativo di prolungare l’agonia, propone prezzi di vendita sottocosto che mettono in crisi l’intero mercato a danno dei concorrenti più virtuosi e in ultimo, dei clienti stessi a cui non vengono garantiti i migliori standard qualitativi.

Com’è facile immaginare, considerato l’alto tasso di evasione, può essere difficile calcolare l’effettivo utile d’esercizio delle imprese. Ma nella condizione in cui fossero disponibili dati certi, non esisterebbe parametro più affidabile.

L’Italia di oggi è piena di risorse, ma la sua capacità di creare ricchezza è ancora ben lontana dai fasti (forse irripetibili) degli anni Ottanta del secolo scorso. In buona misura, questo impoverimento è dovuto da quel che a livello internazionale viene definita come la crisi del modello economico neoliberista; ma per quanto riguarda l’Italia, la situazione si aggrava sia a causa di un apparato politico-intellettuale che considera l’impresa privata ancora come una minaccia anziché una opportunità; sia per il rifiuto di una certa classe imprenditoriale di abbandonare vecchie logiche, a favore di una nuova cultura d’impresa necessaria per riposizionarsi in una geografia economica che nell’arco di appena vent’anni è cambiata completamente.

In conclusione, possiamo dunque ritenere il recupero di marginalità, come l’obiettivo principale delle imprese italiane. Come ci riusciranno, in quanto tempo e con quali misure lo Stato sosterrà questo sforzo – per esempio, con una riduzione sostanziale delle imposte – è difficile immaginarlo, ma da questi interrogativi dipenderà il futuro del nostro sistema economico-industriale.

Alfredo Nepa, vicepresidente G.I. di Confindustria Teramo

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