Punti di Vista | Arch. Silvia Nanni

Architetti: reddito = valore?

Nel suo Punto di Vista l’arch. Silvia Nanni compie un’attenta disamina sulla «professione dell’architetto» nel contesto sociale caratterizzato da questi anni di crisi economica auspicando la «riconquista con responsabilità civile e professionale del ruolo di leadership culturale della nostra figura professionale e recuperando la centralità del fare architettura nell’affrontare i temi della riqualificazione come della ricostruzione e messa in sicurezza del patrimonio edilizio nazionale».
Silvia Nanni | Architetto.

Le recenti e più volte commentate ricerche sulle condizioni economiche delle libere professioni, ed in particolare degli architetti, mette in luce una situazione che non può essere motivata solo dagli effetti della crisi economica; una crisi che infatti ha colpito in modo differente le varie figure impegnate nel comparto edile: architetti, ingegneri, geometri.

Basti un elemento: secondo i dati dell’indagine Cresme in 6 anni – tra il 2006 e il 2015 – il calo del fatturato per gli architetti è stato del 33%, del 23% per gli studi di ingegneria, del 20% per i geometri.

Gli architetti hanno pagato più di altri il prezzo dell’attuale crisi economica.
Le ragioni sono complesse. Nel settore delle costruzioni gli interventi che vedono gli architetti protagonisti sono proprio gli interventi che hanno risentito maggiormente della congiuntura: sono gli interventi di nuova costruzione, i grandi interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana, più in generale gli interventi di maggiore entità. Per contro la cosiddetta semplificazione ha visto il proliferare di una miriade di adempimenti a carico dei cittadini, anche per piccoli interventi, per il quali è meno immediato per il cittadino rivolgersi a un architetto.

La perdita di fatturato, come confermato dal Rapporto Fondazione Eyu «Ingegneri e architetti nella crisi. Riconoscimento della professione, welfare, contrasto al dumping e qualificazione del lavoro – aprile 2016», è solo la conseguenza ultima di una regressione non solo economica ma soprattutto culturale.

Nel rapporto si evidenzia che «il valore aggiunto per occupato, un indicatore di produttività del lavoro, è in Italia basso, segno questo di una strutturale difficoltà aggravata ma non determinata in sé della crisi. (…) con ricadute che, come evidente, non toccano solo il sistema delle imprese ma anche i professionisti, ingegneri e architetti su tutti, che al pari di altre categorie professionali hanno fortemente risentito della crisi dell’edilizia. In Italia il crollo degli investimenti per la progettazione è stato del 71% tra il 2006 e il 2015». (Cresme 2016, Quinta indagine congiunturale sullo stato della professione in Italia, rapporto di ricerca) .

Non c’è più bisogno di architetti

Nel 1965 l’architetto Leonardo Ricci così rifletteva: «fino a che le mentalità conservatrici delle autorità che non hanno il minimo senso di futuro, fino a che gli speculatori rimarranno ancorati al passato per non correre rischi, fino a che gli enti statali limiteranno con regole e schemi vecchi la libertà degli architetti, fino a che i piani regolatori e regolamenti edilizi prenderanno qualsiasi impulso innovatore e creativo, noi non potremmo uscire da questo vicolo cieco non potremmo fare nulla di nuovo (…). L’amara constatazione è questa: esistono architetti capaci, impossibilitati ad agire. Esiste cioè un capitale umano grandissimo che non dà né può dare interesse. Un capitale passivo! Esiste una macchina da produzione improduttiva o costretta a produrre male». (1)

Dopo oltre 50 anni queste riflessioni appaiono drammaticamente attuali e la loro attualità esprime l’enormità di opportunità perse per l’Architettura e la società intera

Mentre siamo tenuti occupati in cose di poco o nessun conto  – o, peggio, lasciati ai margini della realtà lavorativa «tu non sei buono a nulla» – le grandi tematiche, gli ambiti che sono propri della professione di architetto – la qualità dello spazio urbano e di vita quotidiana, la cura della bellezza del costruito, il recupero dell’esistente – sono marginalizzate nei fatti tanto quanto le figure che, storicamente e per formazione, vi si sono da sempre dedicate.

La recente ricerca Cresme Consiglio Nazionale degli Architetti «Chi ha progettato l’Italia? Ruolo dell’Architettura nella qualità del paesaggio edilizio italiano» dimostra come sul patrimonio attuale di 11,9 milioni di edifici destinati all’attività residenziale in Italia, il 41%, sono stati realizzati attraverso forme di auto-promozione e di autocostruzione o da figure professionali che nel passato erano quelle del capo-cantiere o del mastro-costruttore, il 40% sono stati progettati dai geometri, l’11%, dagli architetti, il rimanente l’8% circa infine dagli ingegneri.

Marc Augè, noto etnologo ed antropologo che negli ultimi temi ha saputo lucidamente analizzare il nostro vivere contemporaneo, così puntualizza: «Nel vocabolario concettuale, la parola governance, nel senso di ‘arte di gestire’, è un neologismo sul quale, oramai da qualche anno, si sono lanciati i politici del mondo globale: nei fatti, sottintende che sia tutta una faccenda di competenze e di buona gestione. Così, avremmo definitivamente abbandonato il campo dei sogni e delle rivoluzioni».(2) E, aggiungiamo, la fine della ragion d’essere del fare Architettura. Basta un ‘buon Tecnico’ – e con offerta al massimo ribasso – ad affrontare le più disparate tematiche, dalla riqualificazione delle periferie alla ricostruzione post-terremoto. Non c’è più bisogno di Architettura, non c’è più bisogno di architetti. E forse da più tempo di quanto non si creda.

Che differenza c’è tra un architetto, un ingegnere, un geometra

Tralasciando le problematiche relative alle competenze professionali – salvo auspicare una equa ed oculata regolamentazione in tempi brevi – provo a delineare qual è oggi la sostanziale differenza tra le tre principali figure professionali che operano nel settore edile.

Lo si potrebbe definire essenzialmente un ‘codice genetico’: differentemente dalle altre figure – e indipendentemente dai settori di specializzazione – la formazione dell’architetto è rivolta cioè a sviluppare una particolare sensibilità nei confronti delle tematiche legate al fenomeno artistico, alla lettura storica, e, nel contempo, agli aspetti sociologici, percettivi e simbolici che sottendono ogni spazio antropizzato, ovvero ciò che trasforma uno ‘spazio’ in un ‘luogo’.

La sua è quindi una capacità di visione, una visione olistica che non si fa condizionare dall’ovvietà della soluzione semplicistica, puramente economica. O così dovrebbe.
La fenomenale capacità, davanti a un problema o a una carenza, là dove i più segnalano il problema e qualcuno lancia un’idea, l’architetto prende carta e penna e disegna – un po’ visionario un po’ poeta – un pezzetto di mondo futuro.

Nell’attuale contesto di esercizio professionale, sopraffatti dalla moltitudine di normative scritte male e in contraddizione tra loro, frustrati da una desolante burocrazia, occupati in cose di poco conto o che non dovrebbero nemmeno costituire un motivo d’incarico, umiliati da remunerazioni indegne, gli architetti ricordano quella che è la loro identità, e, se vogliamo, il loro svantaggio competitivo.

La solitudine degli architetti

In questo contesto il ruolo e le responsabilità delle istituzioni, a cominciare dal Consiglio Nazionale Architetti e dai vari Ordini provinciali, sono palesi. A livello nazionale le iniziative intraprese, soprattutto se rapportate a quanto fatto ad esempio dalle istituzioni omologhe dei Geometri,  risultano modestissime.

Due anni fa è stato presentato alla Conferenza Nazionale degli Ordini degli Architetti Ppc il Manifesto «10 obiettivi per il governo del territorio – verso un nuovo rapporto tra progetto e territori», a parte la grafica che lo rende illeggibile e senza entrare nel merito dei contenuti, il Manifesto poteva essere una formidabile occasione per rimettere a tema la centralità del progetto e quindi il vero ruolo dell’architetto nella società civile;  ma a distanza di 2 anni nulla o poco più è stato fatto, non dando seguito e opportuno risalto a quella che poteva essere un’importante iniziativa.

Dello stesso tenore l’attività degli Ordini provinciali, dove la situazione è più variegata, con Ordini piccoli numericamente ma molto attivi e altri Ordini che hanno brillato per la scarsa iniziativa e capacità di essere presenti a fianco degli iscritti nella difficile realtà professionale.

L’esito delle elezioni, appena concluse, per il rinnovo dei Consigli in Toscana, è significativo, con percentuali dei votanti molto diverse: Lucca 50%, Livorno 42%, Prato 39%, Firenze 15% (fonte Consiglio Nazionale Architetti). Nelle ultime settimane si sono potuti registrare a livello nazionale segnali in controtendenza; ci auguriamo abbiano un seguito.

Vi sono poi innegabili responsabilità dell’intera categoria, divisa nell’immaginario collettivo tra Archistar o sedicenti tali e un universo grigio di figure a cui la società non sa più dare un ruolo. Figure che a volte hanno peccato di scarso ‘amor di professione’ quando non di connivenza con la speculazione edilizia e che hanno macchiato così il lavoro silenzioso, competente, di cura attenta e di fare misurato, dei più.

Come acutamente analizza Marc Augè «la preminenza del sistema sulla storia, del globale sul locale, genera conseguenze nell’ambito dell’estetica, dell’arte, dell’architettura. I grandi architetti sono diventati stelle internazionali e, quando una città aspira a comparire nella rete mondiale, cerca di affidare a uno di loro la realizzazione di un edificio valido come testimonianza, ovvero capace di provare la propria presenza al mondo, di provare l’esistenza di quella città nella rete, nel sistema. Anche se in linea di principio questi progetti architettonici tengono conto del contesto storico e geografico, di fatto vengono presto fatti propri dal consumo mondiale: la loro riuscita è convalidata dalla flusso di turisti proveniente dal mondo intero. Il colore globale cancella e colore locale. Queste opere architettoniche sono singolarità esprimono la visione di un singolo autore».(3)

Così, se da una parte è la società civile ad aver voltato le spalle agli architetti anche gli architetti, a loro volta, hanno deluso se non tradito la collettività. D’altro canto, i Valori – come la Bellezza – sono stati trasformati in attributi delle merci – ovvero tutto è stato mercificato, anche l’Architettura; è il mercato ad attribuire a un’opera il suo Valore mentre la critica architettonica è ridotta al puro rango di opinione modaiola.

C’è infine una distorta concezione di «competizione», in realtà – come evidenziato nel Rapporto Fondazione Eyu – un fenomeno di dumping interno alle professioni, ovvero un eccesso di ribasso al fine di portare fuori mercato la concorrenza; un fenomeno che si affianca a una sempre più diffusa, vergognosa e illegale prassi, quella di chiedere una così detta ‘provvigione’ a ditte e fornitori che entrano in cantiere.

Nella presente congiuntura storica, determinante per il compartimento delle costruzioni, più che la competizione in questo momento occorre invece fare coro; è un momento estremamente delicato che chiede alle singole professionalità di mettere a disposizione della collettività tutti i propri specifici saperi e conoscenze in una dimensione di ritrovata etica professionale e rinnovato spirito di servizio; diversamente, più che di competizione si può più propriamente parlare di sciacallaggio, una lotta a contendersi i pochi pezzetti di torta (ammuffita) rimasti sul tavolo, in una logica di pura sopravvivenza priva quindi di progettualità per l’avvenire.

Un colpo d’ala: tornare a fare Cultura

Occorre quindi ricreare, nell’interesse del Paese prima che dei singoli professionisti, le condizioni per le quali un architetto possa svolgere il proprio mestiere, di trovare il proprio ruolo nella società civile e, solo conseguentemente, nel sistema economico.

Sicuramente il ruolo delle istituzioni – Consiglio Nazionale Architetti e Ordini professionali in primis – risulta di primaria importanza; è anche vero che occorre un cambiamento profondo, una vera rivoluzione, dove la base, il singolo professionista, può fare la differenza.

Una possibilità di riscatto, attraverso un rinnovato impegno fatto di competenza, di dedizione, di umiltà, di capacità di cura e di misura; rimettendoci (o continuando) a studiare, pretendendo corsi di formazione qualificati ed a costi ragionevoli – ricordando agli Ordini professionali che la formazione non è un business ma un servizio per gli iscritti ed una occasione di rilancio della nostra figura professionale; chiedendo e promuovendo iniziative che valorizzino e rilancino la figura degli architetti nel contesto territoriale.

Lavorare affinché si ricrei un contesto culturale in cui si ricomprenda la necessità di una visione e quindi di una capacità progettuale, salvando le nostre città e le nostre campagne dalla sterile logica della Norma, della ’governace’; siamo sopraffatti dalla burocrazia anche perché abbiamo perso capacità di visione.

Occorre quindi riconquistare con responsabilità civile e professionale il ruolo di leadership culturale della nostra figura professionale, abbandonando atteggiamenti non consoni alla dignità e all’importanza del mestiere di architetto – marginalizzando quella burocrazia che solo apparentemente ci ‘dà lavoro’ ma che in realtà ha snaturato e tolto dignità alla nostra professione – e recuperando la centralità del fare Architettura nell’affronto dei temi della riqualificazione, ambientale ed energetica come della ricostruzione e messa in sicurezza del patrimonio edilizio nazionale.

Nel promuovere una legge sulla qualità dell’Architettura il Cna afferma che «Fulcro della legge devono essere i principi che l’architettura  di qualità genera plusvalore economico e sociale, non solo con riferimento all’opera progettata, ma a tutto l’ambiente circostante; che la qualità ha un costo, ma che questo costo è di gran lunga inferiore al plusvalore che è in grado di generare, evidenziando, quindi, il rilevante interesse pubblico della progettazione di qualità». (Comunicato stampa Cna 28.10.2017).

Ancora una volta sono le leggi di mercato a stabilire il valore; il plusvalore economico che la qualità architettonica produce ne legittima l’esistenza. Occorre invece creare un contesto culturale nel quale la Bellezza è riconosciuta come un necessario valore, un bene primario ed essenziale; un valore anche economico, nelle sue potenzialità di sviluppo dell’economia nazionale ma, soprattutto, un irrinunciabile patrimonio immateriale, affrancato dalle leggi di mercato. «Finché l’Architetto non si metterà nelle condizioni di essere Architetto».(4)

Silvia Nanni, Architetto

Bibliografia

  1. Anonimo del XX secolo – Ed. Il Saggiatore, 196
  2. Futuro –  Bollati Boringhieri, 2012
  3. Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità – Elèuthera, 2009
  4. Anonimo del XX secolo – Ed. Il Saggiatore, 1965

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