L’intervista| Prof. Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea Università Bocconi

Il declino che ci minaccia

«La società settentrionale ha smarrito il proprio carattere più esemplare: l’essere il motore dello sviluppo del Paese, capace di additare un percorso di progresso e di convogliare lungo il cammino della crescita parti e componenti del resto d’Italia». Così il prof. Giuseppe Berta, puntuale nel presentarci le trasformazioni che hanno attraversato le imprese, le città, il lavoro, l’edilizia, la società.
Prof. Giuseppe Berta | Docente di Storia contemporanea Università Bocconi di Milano
Prof. Giuseppe Berta | Docente di Storia contemporanea Università Bocconi di Milano

Il 30 marzo su questo sito pubblicavamo l’editoriale «Finisce la crisi ma le imprese ci credono?», contenente alcune considerazioni di Mario Draghi, presidente di Bce, di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, di Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, e del ministro Maria Elena Boschi, dove si faceva riferimento a margini di crescita del pil. L’editoriale si concludeva con il riferimento ad una pubblicazione del prof. Giuseppe Berta, «La via del nord. Dal miracolo economico alla stagnazione» (edizioni Il Mulino), e con alcuni interrogativi che ci siamo posti: le imprese italiane vedono la ripresa? E sono ancora capaci di essere elementi propulsivi?, ribadendo la volontà di approfondire le motivazioni che il prof. Berta citava sul perché il nord Italia ha perso la sua via strategica di motore dello sviluppo economico del Paese, incapace di arginare una crisi che sembra essere inarrestabile. «Forse è il caso di approfondire il perché di questa situazione che, perpetuata, può portare davvero alla sparizione di quel che rimane dell’industria italiana», fu l’impegno che abbiamo assunto e che riteniamo di aver svolto proprio andando a sentire il prof. Berta nel suo studio di docente di Storia contemporanea dell’Università Bocconi di Milano.
Il colloquio ha avuto come punto di partenza un dato che per la gran parte della stampa italiana è stato considerato una «buona notizia per l’Italia»: l’Istat ha certificato una crescita dello 0,3% nei primi tre mesi dell’anno, il Paese in questo periodo sembra essere uscito dalla recessione.

Prof. Berta, come considera questa situazione e questo dato: è vera gloria?
La via del nord
L’Istat ha comunicato un dato che il Governo attendeva da tempo: che il nostro pil è salito dello 0,3%. Per una volta, dal 2011, ben quattro anni fa, i conti si chiudono con un segno positivo e questo basta già a molti per far riferimento ad una svolta nell’economia, per dire che siamo in ripresa. Dal punto di vista tecnico, vale la regola che bisogna attendere il dato di due-tre trimestri per poter stabilire con la realtà dei numeri se possiamo citare la ripresa e se la recessione è definitivamente alle spalle. Il segno più davanti alla cifra del pil è solamente un simbolo ma attenzione: i simboli hanno una certa rilevanza per un Paese che è parso avere smarrito il senso del futuro. Questa percentuale di crescita non ci mette al riparo perché, se quest’anno rispetteremo l’obiettivo di crescita dello 0,7%, il valore raggiunto dal nostro Paese sarà pur sempre inferiore di oltre la metà a quello calcolato per l’Eurozona, ovvero +1,5%. Poter arrivare a sostenere che la caduta della nostra economia, caduta molto lunga, si è interrotta, ci sarebbe d’aiuto quantomeno per fissare una nuova base per una ripartenza. Credo che allo stato attuale delle cose sia inutile discutere se il valore registrato dall’Istat segnali una ripresa o solamente il classico rimbalzo indotto dal lungo e continuo arretramento della nostra posizione economica. Quel che importa è fare in modo che il segnale dell’Istat riguardo al pil serva a mobilitare il nostro sistema amministrativo, imprenditoriale e sociale. Non dimentichiamo poi che negli ultimi mesi il Paese ha avuto alcuni temporanei fattori di vantaggio: dal cambio euro/dollaro al prezzo del petrolio, alla creazione di un’inusitata offerta di moneta, fattori che hanno portato all’attuale miglioramento. Però già si sono avvertiti dei sintomi di complicazione dello scenario economico internazionale, che fanno capire come i vantaggi potrebbero venire meno. Ecco che occorre sfruttare la fase di tregua che ci è stata concessa dalle turbolenze dell’economia globale per impiegare al meglio le nostre capacità e superare le strozzature che bloccano lo sviluppo.

Nel volume «La via del nord» traspare un forte pessimismo. Lei ci presenta le trasformazioni che hanno attraversato le imprese, le città, le condizioni del lavoro, la politica, lo sviluppo dell’industria italiana e il suo ripiegamento, una situazione di declino che tocca non solo l’Italia ma anche altri Paesi dell’Europa. Ora le Sue considerazioni sul dato del pil confermano questo pessimismo. Perché? E soprattutto, come agire, come sviluppare le capacità alle quali ha fatto riferimento e come superare le strozzature che fermano lo sviluppo?
Lei starà pensando che io sia un gufo. Le spiego perché esprimo queste preoccupazioni e perché i nodi fondamentali per l’Italia sono ancora quelli degli investimenti, dell’occupazione, del mercato interno che è fermo. Restiamo al dato di Nomisma: in Italia gli investimenti sono crollati del 34%. Devono risalire, altrimenti il confronto e le scelte che si sono fatte sugli effetti del Jobs Act sono destinati a rimanere inutili, sterili. Poi ricordiamo che senza investimenti, privati e pubblici, non si avrà crescita occupazionale. Ritengo quindi sia legittima la pressione sull’Unione Europea affinché si provveda a predisporre e a varare un autentico piano di investimenti. A cominciare dalle infrastrutture: temi che per ora il Piano Juncker evoca solo nel nome e, fra l’altro, penso che il Piano Juncker non sia volano di crescita. Mi lasci dire che sono necessari soprattutto investimenti e innovazione: non solo nell’industria, anche nell’arcipelago del terziario, della burocrazia, affinché si possa incrementare la produttività e con essa si creino le condizioni per un’occupazione più ampia, qualificata, diversificata. È qui che passa il rilancio del mercato interno e dei consumi, requisito necessario di una vera e soprattutto duratura ripresa. Anche nel comparto dell’edilizia e delle costruzioni.

«Sono necessari investimenti in innovazione, soprattutto nelle infrastrutture».
«Sono necessari investimenti in innovazione, soprattutto nelle infrastrutture».

Ritorno un istante sulle infrastrutture. Si parla tanto di Alta velocità, ma io vi chiedo: avete mai guardato la situazione delle linee ferroviarie regionali? Linee che sono da aggiornare in Emilia, in Piemonte, nel Lazio, in Toscana. Pensate all’importanza per un Paese turistico come il nostro che ha la situazione dei trasporti in Liguria e in Toscana con la Litoranea. Manca un grande piano infrastrutturale di manutenzione complessiva, supportato da investimenti. Pensate al turismo che ne può derivare, alle potenzialità dei beni ambientali, pensate al grande sviluppo che potrebbe derivare per i lavoratori della conoscenza. Occorre sviluppare centri di ricerca e di eccellenza. Vi consiglio anche una lettura: «La nuova geografia del lavoro», scritta da Enrico Moretti. Nel libro Moretti descrive la situazione degli Usa ma alcuni concetti sono validi anche per noi. Come rivitalizzare i quartieri, le periferie, con il place-based che ha efficacemente aiutato diverse comunità in crisi a creare nuovi posti di lavoro, iniziativa che è denominata «Empowerment zones program», programma che predisponeva un pacchetto di incentivi fiscali sull’occupazione e di finanziamenti alla rivitalizzazione dello sviluppo, destinati ad aree urbane depresse. E con questo investimenti in infrastrutture e sviluppo dei quartieri. Cito un altro aspetto: pensate al valore della domotica, al rapporto delle costruzioni con gli elettrodomestici, per esempio, al rapporto con la casa intelligente. Un esempio di sviluppo in questo senso ci viene dalla Corea del Sud, che in cinquant’anni si è trasformata. Il loro è stato un autentico miracolo economico, come quello italiano degli anni ’56-’62. Guardate il loro rapporto pil con 49 milioni di abitanti. Lì hanno puntato sulla formazione.

«…il vuoto di idee relativo alle vie dello sviluppo è stato camuffato dall’esaltazione dei nuovi schemi urbani, giocati sulle imitazioni dei più facili fra i simboli della modernità, come i grattacieli».
«…il vuoto di idee relativo alle vie dello sviluppo è stato camuffato dall’esaltazione dei nuovi schemi urbani, giocati sulle imitazioni dei più facili fra i simboli della modernità, come i grattacieli».

Nel volume, quando fa riferimento alla trasformazione del paesaggio economico del nord Italia, fa emergere luci ed ombre: la terziarizzazione, per esempio, che cosa ci ha portato?
Gli ultimi due decenni del secolo scorso sono stati vissuti all’insegna di una mobilitazione molecolare molto distante dall’andamento collettivo del processo di industrializzazione degli anni ’50 e ’60. È emerso un micro-capitalismo animato da progetti economici dei singoli e non più disciplinato da esplicite cornici organizzative. La terziarizzazione dell’economia del nord ha portato nella direzione di un moltiplicarsi infinito delle strategie personali di valorizzazione delle proprie competenze nella forma di attività imprenditoriali, sino al punto da oscurare i confini tra lavoro e imprenditorialità. L’espansione del terziario si è incontrata con la disarticolazione delle imprese maggiori, protese a porre fuori dal loro perimetro aziendale funzioni e servizi che si immettono nell’arcipelago del terziario. La struttura portante di questo assetto non sono più le fabbriche, intese come impianti produttivi, investimenti in capitale fisso, piuttosto sono le competenze, le conoscenze, le attitudini di coloro che vi sono addetti. Le imprese che oggi più riflettono questa tendenza sembrano come configurazioni a geometria variabile, soggette a continui cambiamenti. I cambi di ruolo, le fluidità di schemi organizzativi sempre modificabili in rapporto alle variazioni di mercato le rendono instabili, ne fanno l’esatto contrario delle grandi imprese modernizzatrici del miracolo economico, che esaltavano la stabilità.

Nelle Sue considerazioni vi sono anche espliciti riferimenti all’imprenditoria edile. L’edilizia, come la definisce, forza ambigua che muove la nuova Milano e ne accelera la corsa verso la ricchezza, che non si incarica solamente di attribuire un nuovo volto alla città, ma ne modella le forze economiche, gli spazi e gli aspetti interni, fino a regolare i rapporti fra le sue diverse anime attivando una rete infinita di mediazioni fra la politica e gli affari. L’edilizia è davvero il fulcro di questa mobilitazione economica e come impone il proprio ritmo?
La megalopoli padana
Negli ultimi vent’anni, via via che la produttività del sistema economico veniva affievolendosi, prendeva il sopravvento una tendenza che ha avuto nel settore delle costruzioni il suo motore più evidente. Mi chiedo: si potrebbe immaginare il nord, le sue aree metropolitane, la «megalopoli padana» (come l’ha definita anni fa il prof. Eugenio Turri in un volume edito da Marsilio, ndr), che ha preso ormai il posto delle forme della grande città di un tempo per omologare un territorio urbanizzato privo di confini apparenti, se non vi fosse stata la molla dell’industria delle costruzioni? Rispondo: se un motore di crescita c’è stato, questo è stato l’edilizia. Esso ha preteso di trasformare i poli urbani con progetti di edificazione che celavano in realtà la caduta progettuale del capitalismo del Settentrione. Così abbiamo di fronte forme urbane dominate da un’apparenza di modernità, che nasconde l’assenza di prospettive economiche. Non più la fretta di costruire del miracolo economico, con quel suo disordine che rispecchiava l’urgenza di promozione sociale della popolazione e anche le sue contraddizioni, ma una progettazione di parti della città e un cambio delle loro funzioni d’uso, che servono a mascherare il disagio di una terziarizzazione di ben scarsa qualità, non sostenuta dalla tecnologia, destrutturata e ripiegata su confini locali. Il vuoto di idee relativo alle vie dello sviluppo è stato camuffato dall’esaltazione di nuovi schemi urbani, giocati sulle imitazioni dei più facili fra i simboli della modernità, come i grattacieli. L’ansia di investimento nelle strutture delle città e in sistemi infrastrutturali senza una specifica missione economica è stata propagandata ad arte come la via maestra della crescita: come se lo sviluppo potesse essere indotto attraverso una progettualità di superficie non sostenuta da innovazioni effettive nel tessuto dell’economia. Come se bastasse porre traguardi come Expo 2015 per far riprendere al nord del Paese e all’Italia il cammino della crescita che è stato smarrito. Il paesaggio economico del nord di questi primi quindici anni dell’era 2000 è irriconoscibile rispetto a quello di pochi decenni prima. La distanza dei servizi e delle professioni terziarie gli fa da involucro, generando un microclima che avvolge attività disparate dove i germi della precarietà finiscono spesso mischiati con accenni di imprenditorialità. Un humus propizio all’insediamento dell’economia illegale, al radicamento di una criminalità che assume sembianze economiche e promette tutela ai micro-imprenditori soverchiati dalla concorrenza e incalzati da una crisi che erode i margini di sussistenza. La ‘ndrangheta può così affondare i suoi terminali nel substrato di un’economia informale, a cui non giunge il credito bancario, che persegue altri impieghi all’ombra di istituti resi imponenti dalla politica delle fusioni inaugurata negli anni ’90. Di queste interconnessioni vi sono le cronache dell’inchiesta Minotauro, di quel che accade nel basso calabrese e in Brianza.

«Come se bastasse porre traguardi come Expo 2015 per far riprendere al nord del Paese e all’Italia il cammino della crescita che è stato smarrito».
«Come se bastasse porre traguardi come Expo 2015 per far riprendere al nord del Paese e all’Italia il cammino della crescita che è stato smarrito».

Nei suoi scritti, per disegnare le forme dell’Italia industriale attorno agli anni ’70 e confrontarle con quelle di oggi, Lei fa riferimento ad una clessidra asimmetrica con il vertice molto più ristretto della sua base. È così ancora?
In alto ci metto il grappolo consistente delle grandi imprese private e pubbliche che caratterizzavano l’assetto di allora. In basso ci metto la grande massa delle piccole e micro imprese come vera costante storica della nostra formazione economica. A metà la clessidra avrebbe una vita sottile, composta da uno strato esiguo delle medie imprese. Quarant’anni dopo la situazione è mutata e i contorni dell’Italia della produzione sono informi e si presentano così: il nucleo delle grandi imprese storiche è quasi svanito, la distesa delle piccole attività si è ampliata e la novità consiste nell’area delle medie imprese, area che si è irrobustita sino al punto da costituire il nerbo del sistema manifatturiero. Questo dato emerge ormai da quindici anni dalle puntuali analisi di Mediobanca fondate su dati di Unioncamere. Sono dell’idea che oggi siano in molti a significare che cosa possa essere in Italia la politica industriale, oggi siamo in difficoltà a tracciare i contorni e il profilo del nostro apparato produttivo. L’Italia è incorsa in uno stato di afasia dinnanzi al problema industria, anche perché si sono scompaginati gli interessi e gli attori collettivi che tenevano assieme il sistema industriale. Diventa difficile fare gioco di squadra perché i protagonisti si muovono disordinatamente e, in assenza di schemi delineati, nessuno sa svolgere la propria funzione.

05 Vittorio Valletta
Vittorio Valletta
06 Raffaele Mattioli
Raffaele Mattioli

Schemi e responsabilità, in estrema sintesi: politici, imprenditori, classe dirigenziale?
Parto dal risparmio degli italiani, che è altissimo e che per il suo 15% dovrebbe essere investito. Il nostro è un sistema bancocentrico e molte famiglie di imprenditori non vanno in Borsa perché permane la mentalità dell’impresa familiare. La classe imprenditoriale, che in passato ha avuto una grande vitalità, si è quasi fermata, pecca di riluttanza a crescere e il suo ragionamento si riduce a questa sintesi: mantengo il 100% o vendo? A tal proposito suggerirei la lettura di Romolo Bugaro, «Effetto domino». Il risparmio poi non ha canali specifici per tramutarsi in investimenti. Servono, per esempio, obbligazioni garantite. Io credo che la gente investirebbe volentieri se vedesse il proprio risparmio investito nello sviluppo di servizi e opere per il proprio territorio.
La scena mediatica dei politici deprime e l’elettore non vede mai il risultato concreto delle loro azioni. Mi sembra che il sistema politico sia rassegnato a rispecchiare di conservazione, anche se potremmo dire di sopravvivenza di un Paese che in genere ha un atteggiamento di diffidenza e di resistenza davanti al futuro. Uomini come Vittorio Valletta, Raffaele Mattioli, Adriano Olivetti, Oscar Sinigaglia oggi mancano. Voci minoritarie all’epoca, ma possenti, di uomini che avevano la lungimiranza di additare un domani apparentemente lontano ma già a portata di mano per il nostro Paese. Oggi vi sono imprenditori che non investono, che speculano. Forse perché anche molti grandi marchi italiani non vi sono più. Per questo mi piace citare l’esempio della Lavazza spa, che a Torino è impegnata a intervenire sulla sua nuova sede e con la città a riqualificare un ex-spazio industriale.

Giorgio-Amendola
Giorgio Amendola

Professore, nel suo libro e nell’altra pubblicazione «Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche» cita una serie di personaggi: economisti, politici, figure istituzionali che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia economica del Paese e della sua industria. Da Vanoni a La Malfa a Trentin, da De Gasperi ai giorni nostri. La figura di Giorgio Amendola e quella di Guido Carli hanno suscitato forte interesse in me. Di Amendola evidenzia la sua convinzione che «non è più necessario espandere la mano pubblica nell’economia» e che l’Italia è fatta di piccole realtà imprenditoriali. Guido Carli ci viene presentato in due modi, come un Giano bifronte per la sua presa di posizione in tema di intervento dello Stato nell’economia. Perché?
Mi è parso quasi temerario lo sforzo che Amendola fa per uscire dall’involucro della sua tradizione e rimettere in circolo le risorse di consenso e di organizzazione altrimenti congelate nel blocco ideologico del comunismo. Lo fa con gli strumenti culturali che gli appartengono, condizionati da una retorica di stampo umanistico, ma appoggiati ad una solida osservazione della realtà, soprattutto del nord Italia. In un convegno a Milano, nel novembre del 1974, convegno organizzato dall’allora Pci, Amendola esclude dall’orizzonte dell’attualità la trasformazione in senso socialista della società italiana. C’è la scoperta dell’articolazione dell’economia italiana, che non è fatta di grandi imprese, bensì di aziende di minori dimensioni, le più idonee a «dare all’economia quell’elasticità, quella capacità di corrispondere ai bisogni necessariamente diversi di un popolo, senza una centralizzazione che può mortificare queste capacità di lavoro…». Le innovazioni di Amendola non si fermano qui: si spinge a dire che non è più necessario espandere la mano pubblica nell’economia e che le imprese delle Partecipazioni statali vanno messe al riparo dai feudi economici e politici. Per lui le imprese devono liberarsi dalla tutela oppressiva della grande impresa e anche dei partiti politici. Amendola arriva perfino a fare l’elogio della concorrenza, della competitività che nasce dallo sforzo e dal rischio imprenditoriale. Non è che Amendola si sia dimenticato delle fabbriche e degli operai, soltanto li colloca entro un processo economico e sociale in cui i loro interessi diventano inscindibili da quelli di altre componenti del sistema industriale e d’impresa, connessi organicamente in un circuito di opportunità e di integrazioni necessarie. I salari sono legati così al livello tecnologico delle imprese. Bisogna agire perché crescano gli investimenti in tecnologia, di modo che la concorrenza non avvenga più sul piano dei costi, in primo luogo del costo del lavoro.1968Negli anni ’70 il linguaggio di Amendola si è sgravato dalle scorie dell’ideologia. I suoi toni si fanno anche insofferenti verso i luoghi comuni del ’68 che si prolunga a dismisura, verso un’azione sindacale che gli sembra insensibile ai problemi di compatibilità economica, verso una certa oltranzistica rigidità del lavoro che rischia di appesantire le fasi di crisi. Nelle file del Pci era probabilmente troppa l’incertezza perché le uscite di Amendola potessero trovare seguito. All’indomani della marcia del 40mila a Torino sarà il socialista più anti-comunista, Bettino Craxi, in un discorso alla Camera (24/10/1980), a segnalare la necessità di riprendere una «lezione per lo più inascoltata».

Guido Carli
Guido Carli

Carli, allora una delle figure centrali nelle sue analisi…
Guido Carli è una figura fondamentale di quel periodo. Ministro per il Commercio con l’estero nella seconda metà degli anni ’50, poi fu governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, in seguito, fra il 1976 e il 1980, presidente della Confindustria e ministro del Tesoro al momento degli accordi di Maastricht. Con il suo operato Carli scandì le tappe principali dell’evoluzione dell’economia italiana e potrebbe essere collocato tra gli artefici del modello dominante di economia mista. Tuttavia, negli ultimi suoi anni, si servì degli accordi per l’unificazione europea per introdurre il principio del vincolo esterno: aveva maturato il convincimento che per ridare slancio all’economia italiana essa andava assoggettata ad un condizionamento esterno. Come ministro e alla Banca d’Italia, Carli aveva guidato il capitalismo italiano con autorevolezza, esprimendo poi un progressivo acuto pessimismo sul destino economico di un Paese che non doveva essere lasciato a sé stesso, pena la sua decadenza materiale e civile. Negli ultimi suoi anni Carli si prodigò per mutare un’economia che considerava drogata dalla spesa pubblica, dalle intromissioni della politica, dalle svalutazioni competitive della lira. Voleva radicare il Paese nel cuore dell’integrazione europea, così da sradicare quei lacci ai quali imputava la declinante performance dell’economia italiana. A distanza di vent’anni, si può concludere che il vincolo esterno non ha funzionato. Il sistema delle grandi imprese è in larga parte declinato, il capitalismo imprenditoriale delle medie imprese è una realtà significativa ma circoscritta e il problema della tenuta e dell’efficienza della vasta area di piccole imprese rimane. Negli ultimi vent’anni lo sviluppo italiano ha avuto ritmi via via decrescenti. Dalla fine del ‘900 in poi si è ipotizzato un taglio netto nella storia d’Italia modificando alla radice il modello di sviluppo basato sull’economia mista e sul ruolo dello Stato. Già negli anni ’70 le basi di questo modello avevano iniziato ad erodersi. Allora le grandi imprese entrarono in affanno e andava diffondendosi il concetto del «piccolo è bello», per esaltare il dinamismo delle piccole imprese aggregate negli emergenti distretti industriali. Nella Seconda Repubblica poi si direbbe quasi che l’industria non rientrasse più nel sistema istituzionale, come invece era avvenuto prima. E siamo ai giorni nostri.

Intervista di Livia Randaccio

Per approfondire:
Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche. La parabola dell’industrialismo nel ‘900 (edizioni Il Mulino)
Giuseppe Berta, Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche (edizioni Einaudi)
Giuseppe Berta, L’ascesa della finanza internazionale (edizioni Feltrinelli)
Giuseppe Berta, La via del nord. Dal miracolo economico alla stagnazione (edizioni Il Mulino)
Enrico Moretti, La nuova geografia del lavoro (edizioni Oscar Mondadori)
Eugenio Turri, La megalopoli padana (edizioni Marsilio)
Romolo Bugaro, Effetto domino (edizioni Einaudi)

Leggi anche gli articoli: «Torino: entro il 2016 si riqualifica il quartiere Aurora» >> e «Finisce la crisi ma le imprese ci credono?» >>

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