L'intervista | Giuseppe Berta

L’Italia economica che deve riconsiderarsi

«Che fine ha fatto il capitalismo italiano?», libro del prof. Giuseppe Berta, è l’occasione per riconsiderare gli assetti imprenditoriali dell’Italia di oggi. Le valutazioni realistiche del nostro potenziale economico-industriale. Il divario nord-centro e il mezzogiorno. La crescita del nord est. L’assenza del sistema politico italiano.
Giuseppe Berta, professore di Storia Contemporanea presso l’Università Bocconi di Milano. Alterna l’attività di editorialista alla ricerca per le imprese, le associazioni e le istituzioni.

«L’Italia economica deve ripensare se stessa per ritrovare il proprio posto nel mondo»: così il prof. Giuseppe Berta presentandoci le sue considerazioni sulla situazione dell’economia e della società italiana, considerazioni ampiamente espresse anche nel volume edito da Il Mulino, volume titolato «Che fine ha fatto il capitalismo italiano?».

Prof. Berta, dall’ultima sua pubblicazione emerge un quadro drammatico della situazione italiana: economia, società, politica sembrano essere ferme al palo, sembrano non recepire le mutazioni epocali che le stanno investendo. Perché?

Il volume di Berta edito da Il Mulino invita a una riconsiderazione coraggiosa degli assetti imprenditoriali dell’Italia d’oggi e a una valutazione realistica del nostro potenziale economico e industriale. Per Berta la sfera più propria del nostro paese è quella del mercato e non del capitalismo: alle sue reti lunghe occorre agganciarsi per non rinunciare a una prospettiva di sviluppo che possiamo ancora conseguire.

Per capire la situazione occorre partire da alcuni dati. In questo ci viene in aiuto la Banca d’Italia con l’ultimo Rapporto titolato «Economie regionali. L’economia delle Regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strumentali», studio del dicembre scorso. Nel rapporto è esplicita la conferma del nuovo dualismo che sta caratterizzando l’economia e la società italiana. C’è un andamento economico fortemente divergente, a cominciare dal dato relativo all’occupazione che al centro nord è tornata a livelli pre-crisi mentre nel sud del paese ha recuperato solo circa un terzo del calo osservato dal 2008. Questa situazione occupazionale è il riflesso dello stato delle imprese: quelle ubicate nel sud del paese, benché abbiano registrato negli ultimi due anni segnali di ripresa, continuano a essere soggette a peggiori condizioni strutturali e hanno dimensioni medie inferiori a quelle del nord e del centro Italia. Presentano anche una patrimonializzazione più bassa a fronte delle imprese del nord e del centro Italia che hanno ridotto il loro indebitamento con un aumento del loro patrimonio. Il dualismo a cui si fa riferimento oggi è diverso da quello che ha posto l’attenzione sulla grande tradizione politica del meridionalismo, dal ‘900 agli anni ’70 del secolo scorso. Quella poneva in contrasto lo sviluppo del nord e in particolare l’area del triangolo industriale, Milano – Torino – Genova e il sottosviluppo del Meridione. La novità della rappresentazione della nostra società economica sta tutta nel fatto che oggi ci viene proposto un dualismo di fatto imperniato sulla crescente omogeneità dei territori settentrionali e centrali del paese i quali starebbero dando vita a un modello economico dal quale si distacca il Mezzogiorno che non ha le risorse e neppure le dotazioni per omologarvisi.

La sua tesi è dunque quella di un paese diviso in due blocchi fortemente separati: quali i punti di forza di questi due blocchi?

La Banca d’Italia parla di un’assimilazione avvenuta fra le economie del nord-centro Italia anche se permane un certo divario posto in luce dalla rilevazione del pil. Rispetto al picco del 2007 il calo cumulato del pil è stato pari a 9 punti percentuali nel centro e a poco meno del 6% in tutto il nord. La caduta del sud invece è stata ben più grave, ben 12 punti percentuali. Da notare che il reddito pro-capite del Mezzogiorno due anni fa era il 63% di quello del nord e il 71% di quello del centro. Si potrebbe concludere che lo scorso anno il paese è stato davvero diviso in due blocchi: l’uno però riguarda il nord ovest e il nord est che si sono scoperti più simili, accumunati da un maggior dinamismo nel comparto industriale attribuibile soprattutto alle imprese di dimensioni medio-grande. È questo un sistema industriale che dimostra di aver tenuto all’urto della crisi grazie a un sostanziale recupero dei livelli di produttività. L’altro blocco è costituito dal sud che pur rilevando un incremento del pil superiore alla media italiana (ovvero 1%) non riesce a rimontare il divario che lo allontana di fatto dalla parte più solida dell’Italia economica. I punti di forza? La sua spinta economica è derivata dai servizi e dal turismo mentre l’incremento della produttività manifatturiera è da ascrivere agli impianti automobilistici di Fiat Chrysler di Melfi e di Pomigliano D’Arco, un modello industriale privo di radici autoctone.

Il Berta pensiero: «… Il nostro paese ha bisogno di un’industria delle costruzioni forte perché ha un patrimonio urbano da difendere, valorizzare e modernizzare, ha un territorio da difendere. All’interno delle nostre funzioni urbane c’è da ripensare al ruolo che l’edilizia può giocare insieme alla domotica. C’è uno spazio potenziale enorme per i produttori del settore».

Nel suo commentare vi è anche una sostanziale differenza tra il nord est e il nord ovest. Perché e quali sono gli elementi caratterizzanti di queste due aree produttive?

Il nord est si è imposto all’attenzione del paese rivendicando progressivamente uno spazio e una considerazione pubblica correlati al suo peso economico crescente. Dopo aver rafforzato le sue basi territoriali si è definito per alterità nei confronti del modello nord ovest, fino agli Settanta identificato col nord. Il nord veniva infatti ravvisato col triangolo industriale e con i suoi caratteri portanti: capitalismo a base urbana, grandi concentrazioni produttive e grandi impianti, standardizzazione delle lavorazioni, impiego di masse ingenti di lavoratori a bassa qualificazione. Il nord est invece crebbe e guadagnò consenso per antitesi: era una sorta di capitalismo popolare e diffuso, provinciale nel significato più vasto del termine, dove la distanza fisica e sociale fra imprenditori e lavoratori era scarsa, le lavorazioni erano spesso connotate da elementi di artigianalità e la produzione organizzata per piccoli lotti. Quando ancora era in voga questa distinzione, introdotta dagli studiosi americani Michael J. Piore e Charles F. Sabel, il nord ovest appariva come il luogo specifico della produzione di massa, laddove il nord est (e le aree del paese che gli si apparentavano) erano lo spazio della specializzazione flessibile, dove si mescolavano flessibilità operativa e tradizione artigianale. A questo punto però la comparsa del nord est ha incluso una carica contestativa sia nei confronti del modello economico prevalente rappresentato dal capitalismo delle grandi imprese e dei salotti buoni sia verso gli schemi politici predominanti accusati di disinteresse rispetto a una base produttiva estesa e ampia che percepiva se stessa come la più vitale del paese ed era invece trascurata nelle sue domande di sostegno. L’ascesa del modello nord est era dunque parte fondamentale di una reazione ai cambiamenti economici degli anni ’70 tali da indurre l’Italia a riscoprire forme di imprenditorialità non riconducibili ai sistemi di grande impresa. Cito Giorgio Fuà che è stato tra i primi a ragionare intorno a un modello nord-est-centro, modello che gli sembrava racchiudere gli aspetti migliori di una via peculiare allo sviluppo capace di far perno sull’Italia delle Province distinta da quella delle aree metropolitane che erano uscite dal periodo del miracolo economico come i poli vincenti dell’industrializzazione del paese. Dai circuiti territoriali del nord est è emersa un’imprenditorialità cresciuta tanto nelle dimensioni quanto in un assetto che non è più quello tipico della piccola impresa del passato e oggi siamo davanti a profili intermedi per la qualità dei processi organizzativi e spesso tecnologici, per il metodo di approccio ai mercati. Oggi nord ovest e nord est sono più vicini, sono due realtà territoriali che i processi economici hanno ormai omologato. Ha avuto ragione Fuà che negli anni ’80 aveva indicato il modello Nec (nord-est-centro) come una combinazione progredente.

E il ruolo della politica economica?

La politica economica attende di essere rimodulata almeno per la parte che riguarda il mondo delle imprese. È necessario che siano ben chiari i lineamenti dei soggetti imprenditoriali che si vogliono promuovere. Si tratta d’individuare degli strumenti che servano a sostenere le componenti più dinamiche del sistema imprenditoriale, quelle che, per William J. Baumol operano per diffondere l’innovazione e il cambiamento in contrapposizione al capitalismo collusivo che genera invece il ristagno. Potremo verificare entro breve se il Piano Industria 4.0 che intende sollecitare un diffuso orientamento agli investimenti in innovazione tecnologica risponda a quest’obiettivo. Una considerazione sul piano della politica generale. Il sistema politico italiano continua a essere refrattario a misurarsi con le trasformazioni che investono l’economia e la società italiana nel tentativo di riassetto costituzionale è stata ignorata la questione economica. Il nodo della rappresentanza però non può sfuggire al confronto con i problemi aperti dell’economia e del lavoro, pena uno scollamento ancora più grave della politica dal resto del paese. Ci vorrebbe qualcosa di simile all’Inchiesta Industriale del 1870-74 oppure alla Commissione Economica della Costituente del 1946 quando politica e parlamento avvertirono l’esigenza di conoscere gli orientamenti e le opinioni che animavano la schiera degli operatori economici.

Nel testo asserisce che difronte all’intreccio profondo di fattori da cui dipende lo sviluppo si devono mettere in questione le vecchie categorie adoperate in passato per designare le forze dell’intreccio pubblico e si chiede se serve ancora parlare di politica industriale e di politiche territoriali tenendole distinte…

Sono le facce della stessa medaglia che dovrebbe essere estesa per consolidare i comportamenti tendenti all’innovazione. Ci vogliono politiche urbane che abbiano l’obiettivo di rendere più stabile e forte la situazione professionale dei lavoratori della conoscenza, uno strato ormai ampio che alimenta direttamente la trasformazione dei sistemi dei servizi con l’offerta di una gamma crescente di opportunità. Ci vogliono politiche rivolte alle imprese e alla formazione del loro capitale umano: esse passano per la valorizzazione dei sistemi delle competenze e dei circuiti del sapere applicato. Vi è l’urgenza di creare piattaforme digitali, di cui difetta l’organizzazione industriale italiana, per strutturare gli schemi di cooperazione fra le imprese, anche fra quelle che sono in concorrenza sul versante dei rapporti di mercato. L’Italia economica ha più che mai urgenza di uno sguardo realistico rivolta a se stessa, che la sottragga al contempo alla retorica e alla decadenza. Le occorre una rappresentazione realistica che da un lato riesca a riconciliarla col proprio presente e dall’altro le restituisca il senso del proprio ruolo. 

Building Information Modeling (Bim) | La digitalizzazione consente l’analisi e l’incrocio di un enorme mole di dati per assicurare un migliore governo delle nostre città e del nostro territorio. È in grado di valorizzare il nostro enorme patrimonio ambientale. Bisogna mettere insieme soggetti che sono stati separati, competenze che sono state sin qui segmentate.

Sovente si sente parlare di ripresa, di nuove prospettive, di un ritorno degli anni belli del boom economico: le sembrano possibili e attuabili queste considerazioni?

Le imprese italiane sono distanti dai vertici dell’economia internazionale. Non si può alimentare la nostalgia del grande secolo manifatturiero, dell’Italia del triangolo industriale, dei capitani d’industria, del miracolo economico. Quella è stata, con tutta probabilità, una parentesi nel percorso evolutivo di un paese che non si è mai emancipato del tutto dai vincoli che ne hanno frenato a lungo la corsa. Occorre abituarsi a pensare a quell’epoca come a una fase decisiva ma transitoria per l’infrastrutturazione dell’economia che, sia prima sia dopo, ha conservato il proprio centro di gravità in una dislocazione delle risorse e delle proprie capacità differente da quella necessaria al mantenimento e allo sviluppo ulteriore delle grandi organizzazioni, non soltanto economiche. Dovrebbe essere chiaro che l’Italia non è fatta a misura delle grandi imprese. Occorre piuttosto recuperare il racconto di una società che si trova sul ciglio della povertà e che deve sventare la minaccia di ricadervi. 

Che cosa necessita a questo punto?

Ci vorrebbe una politica tagliata a misura delle forze che si vogliono promuovere per sviluppare e diffondere impulsi di imprenditorialità. Ci vorrebbe una coraggiosa opera di costruzione di un retroterra che non può essere altro che quello indirizzato a rafforzare il tessuto cognitivo, quell’area sociale ed economica in cui proliferano, sovente a stento, i lavoratori della conoscenza, senza i quali resterà inerte ogni programma di rilancio della crescita. Serve più il respiro delle aree metropolitane, che sono i luoghi insostituibili della sperimentazione, dove entrano in contatto competenze eterogenee e dove assumono consistenza combinazioni inedite di fattori produttivi. Le organizzazioni di rappresentanza degli interessi devono decidere se continuare ad amministrare stancamente il loro declino o se, accettando il ridimensionamento e la restrizione dei loro margini d’azione, giocare la partita a sostegno dei soggetti sociali ed economici che hanno un futuro davanti. I sindacati dei lavoratori dovrebbero abbandonare gli schemi vigenti delle relazioni industriali per volgersi a rafforzare i sistemi d’impresa valorizzando il ruolo attivo e la responsabilità crescente di un mondo del lavoro dal quale sale una domanda, inarticolata quanto inascoltata, di riconoscimento.

Intervista a cura di Livia Randaccio

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here