Punti di Vista | Bruno Gabbiani, Presidente Ala Assoarchitetti

In difesa delle rose

In architettura oggi la creatività, pur potendo contare su un’innovazione tecnologica in continua evoluzione, si trova incanalata entro binari piuttosto rigidi, da un corpus di norme tecniche nazionali e internazionali che regolano la progettazione, per tutelare gli utenti e l’interesse pubblico a ottenere qualità, sicurezza, risparmio energetico e salvaguardia del territorio e dei beni culturali.
Bruno Gabbiani | Presidente Ala Assoarchitetti.

L’uomo ha coltivato e selezionato le rose nei giardini fin dalla più profonda antichità, per amore della loro bellezza assoluta e del loro profumo meraviglioso.

Tuttavia si sa, il n’est rose sans espine. Il detto è inciso come motto filosofico nel basamento della casa Pigafetta (https://it.wikipedia.org/wiki/Casa_Pigafetta) costruita in stile manuelino, qualcuno dice da quell’Antonio che proprio cinquecento anni fa circumnavigò con Magellano il Globo: un vero “cosmonauta” del suo tempo.

Ma l’uomo ha sempre voluto creare la bellezza, oltre che migliorando le rose, anche con l’architettura e nella fantasiosa casa Pigafetta, quest’aspirazione al bello e al leggiadro è più percettibile che in altri esempi. In ogni caso, nel XV secolo i manuali d’architettura erano pochi e rari e la forma delle costruzioni era determinata dall’esperienza e dalla visione del committente, dell’architetto e del costruttore.

Oggi invece la creatività, pur potendo contare su un’innovazione tecnologica in continua evoluzione, si trova incanalata entro binari piuttosto rigidi, da un corpus di norme tecniche nazionali e internazionali che regolano la progettazione, per tutelare gli utenti e l’interesse pubblico a ottenere qualità, sicurezza, risparmio energetico e salvaguardia del territorio e dei beni culturali.

Si è formato in questo modo un codice ampio, particolareggiato e cogente, che s’assomma alla standardizzazione degli elementi costitutivi, che derivano dall’industrializzazione e dall’applicazione delle normative antisismiche, di sicurezza antincendio e sulle prestazioni energetiche degli involucri e degli impianti.

Un vero canone tecnico, che non ha tuttavia prodotto uno stile universale, paragonabile a quelli dominanti del passato, i cosiddetti romanico, gotico, rinascimentale, barocco, ecc., ma che ha impresso nei progetti individualistici e autoreferenziali dei nostri giorni, una vistosa omologazione dei componenti delle costruzioni. Quindi nessun linguaggio condiviso, ma un eclettismo a volte modaiolo, che attualizzando Philip Johnson, potrebbe essere definito come “stile neo-internazionale”.

Ben sappiamo che il progetto d’architettura non è più una creazione artigianale che trova origine all’interno di un solo atelier, ma il prodotto di un’équipe interdisciplinare, che opera separatamente, a volte da Paesi e continenti diversi; che il progetto è divenuto un processo complesso, che l’architetto coordina rapportandosi con tutti gli altri specialisti, ma anche con chi dovrà materialmente realizzare l’opera e con le industrie produttrici degli elementi e dei sistemi.

Proprio la necessità di controllare e ordinare in modo economico ed efficace questa complessità ha imposto l’introduzione della razionalizzazione informatica del processo (Leed, Bim ecc.) e ciò inevitabilmente apporta nuovi condizionamenti e ulteriori standardizzazioni.

Forse allora è il momento di verificare se la cultura che sta alla base di questi metodi di controllo e prima ancora delle norme che regolano le costruzioni – quella anglo-americana, che ha trasferito nell’architettura i protocolli efficienti ma rigidi dell’industria bellica e delle imprese spaziali – ha lasciato qualche spazio alle altre culture vive: se ad esempio quella genericamente definibile come mediterranea o quelle asiatiche, sono state capaci di rendere compatibili con le norme anche caratteri peculiari delle proprie tradizioni, senza cadere in deludenti linguaggi vernacolari.

Non sembra che questo sia avvenuto almeno in modo esteso e quindi le tecnologie del nord del mondo: acciaio, cristallo, lamiera, legno, anziché muratura, intonaco e pietra sono ormai ovunque sinonimo stesso dell’architettura contemporanea.

Beninteso questo è un fenomeno che magari a protagonisti invertiti, s’è verificato più volte nel passato e quindi, di per sé non è né un bene, né un male. Però le norme ora tendono a uscire dall’ambito propriamente tecnico e si stanno estendendo alla sfera etica della progettazione, disciplinando tutti i campi, gli aspetti e i rapporti con le varie condizioni umane.

Da questo scenario non sono esclusi i giardini e i parchi, per i quali ad esempio, i criteri ambientali minimi (Cam, dm 13.12.13) dispongono a protezione di tutte le categorie d’utenti, che le essenze vegetali utilizzate non devono essere velenose, né allergeniche, né spinose.

Quindi negli spazi verdi non più bossi, tassi, mughetti, ranuncoli, ginepri, azalee, anemoni, clematidi, ciclamini, ippocastani, che sono velenosi; non più cipressi, che sono allergenici; non più arance, limoni, capperi, oleandri, melograni e soprattutto non più rose, che aimè hanno le spine.

Ci sembrano quindi necessarie una riflessione e una parziale correzione di rotta, per evitare di trovarci a dover scegliere, nella redazione del progetto, tra l’abbandono di una millenaria cultura e l’attesa della produzione di rose transgeniche, che smentiscano finalmente il vecchio Pigafetta.

Bruno Gabbiani, Ala Assoarchitetti

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