Guida Pratica | Puliture

Strati sovrammessi: il restauro delle colonne del Pantheon di Staglieno

Nell’articolo viene descritto il restauro conservativo delle colonne in marmo nero nel pantheon del cimitero storico di Staglieno, a Genova. Effettuati i lavori di pulitura e «deceratura», lucidatura con cera, trattamento omogeneizzante della superficie, pulitura con solventi, seconda pulitura con il metodo dello Jos, stuccature, leggero ritocco di colore e protezione finale con ceratura.

Nel 2001 la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria ha iniziato un intervento di restauro del Pantheon di Staglieno (Genova), realizzando la pulitura dell’altare principale, la pulitura e ripresa di stucchi e il restauro di alcune delle colonne in marmo nero all’interno della chiesa.

Tra il 2003 e il 2004 il Pantheon è stato oggetto contestualmente di due interventi di restauro realizzati, con due finanziamenti distinti, dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria e dal Comune di Genova.

Il Comune ha eseguito i lavori di restauro dei due campanili laterali sul retro, dei due cavedi tra chiesa e campanili, dello scalone e dei locali sottostanti, mentre la Soprintendenza ha completato l’intervento già precedentemente iniziato nel 2001. In particolare in questa scheda vengono descritte le operazioni eseguite sulle colonne nere.

Le colonne hanno richiesto un restauro impegnativo, la stessa complessa genesi avuta dai sedici fusti di calcare nero ha influito negativamente sullo stato conservativo.

Il 26 maggio 1832 il parlamento del Regno di Sardegna pubblica le Regie Patenti per la cessazione delle sepolture all’interno delle chiese. La Municipalità di Genova chiede quindi all’architetto civico Carlo Barabino di individuare un sito fuori dalle mura cittadine per l’erezione di un pubblico cimitero e di preparare un progetto di massima. L’11 settembre del 1835, dopo la morte del Barabino, il progetto viene presentato dal successore, l’architetto civico Giovanni Battista Resasco.

Quest’ultimo inizia l’opera secondo il progetto originario del Barabino, che prevedeva un cimitero semplice e di ridotte dimensioni. Il progetto appare però subito inadeguato per capienza e importanza monumentale, anche in conseguenza della decisa ripresa economica e demografica della città; nel 1837 il Resasco comincia a elaborare un nuovo progetto.
Dopo tre anni di lavoro, il Resasco presenta il nuovo progetto del cimitero, comprendente un tempio a pianta centrale, con cupola a doppia calotta sorretta da un colonnato ionico, e una facciata con un pronao dorico.

Nel 1858 il Consiglio Comunale deliberò finalmente la costruzione di un tempio, in base al progetto del 1840. Durante i lavori per le fondazioni della chiesa venne però constatata la cedevolezza del terreno su cui doveva sorgere l’edificio, questo costrinse il Resasco a rivederne il progetto inserendo una cripta, per raggiungere con lo scavo un livello di roccia più consistente, isolando il tempio dall’umidità del terreno e ricavando ulteriori spazi per sepolture.

Con questi presupposti la giunta municipale deliberò nell’autunno del 1860 la costruzione della Cappella dei Suffragi, o Pantheon, secondo questo nuovo progetto e la retrostante Galleria, il Boschetto, la Cripta e il campo semicircolare.

La «deceratura», ossia la rimozione delle cere presenti sulla superficie delle colonne, è stata effettuata in modo completo utilizzando solventi idrocarburi.

Il marmo nero

L’11 febbraio (del 1862) la giunta delibera, su proposta di variante del Resasco, la posa delle sedici colonne interne in marmo nero di Saltrio, in luogo di quello bianco di Carrara. Nel 1864 sono finalmente portate in cantiere e collaudate le colonne in marmo nero, queste vengono innalzate utilizzando argani speciali e attrezzi meccanici affittati al Borgo dal Comando in Capo del Primo Dipartimento Marittimo sezione materiale.

La posa delle colonne è conclusa nel 1865. A questo punto il Resasco a un ulteriore ripensamento rispetto al progetto originario, forse quello architettonicamente più significativo: queste colonne, infatti, contrariamente a quanto richiesto, non erano monolite ma presentavano un duplice strato e l’architetto non riteneva potessero resistere il peso della cupola interna. «… il primo concetto dell’architetto era di voltare la cupola in doppio come quella di San Pietro, ma condotta a termine la parte esteriore, s’accorse in tempo che la seconda volta avrebbe tolto grandiosità all’ambiente per cui si contentò di decorare con bellissimi rosoni la volta, il magnifico giro di colonne resta perciò a reggere illogicamente la sola cantoria ma se ne avvantaggia grandemente l’ampiezza della intera chiesa» (Partecipazio Staglieno Guida…1883, bibliografia a margine p.96)… «reputando l’architetto che la struttura delle colonne a duplice strato (non permettendole a tale mole tutte d’un pezzo la qualità delle cave comasche) non fosse tale da ripromettere sufficiente solidità proporzionatamente al peso della cupola interna che doveva loro addossarsi, venne , a lavoro incipiente, semplificarne la costruzione, sostituendo alla galleria circolare, un ampio ambulatorio e decorando la grande e unica cupola con lucernario e rosoni» (Ferdinando Resasco La Necropoli…1892, bibliografia a margine p.96).

Il marmo delle colonne proveniente dalle Alpi comasche era caratterizzato da disomogeneità anche consistenti nel materiale e in diversi casi registrava parti di qualità molto differenti. Il calcare nero lombardo fu utilizzato unicamente per le colonne del periptero del Pantheon. Si tratta di rocce calcaree più o meno dolomitiche (intraosparite), la cui sedimentazione è avvenuta in bacini a circolazione ridotta con acque basse, scarsamente ossigenate e in condizioni fortemente riducenti.

In tal modo si è conservata la sostanza organica (soprattutto sapropel fornito dal fitoplancton) presente nei sedimenti al momento della loro deposizione. Appartengono alla formazione dei «Calcari selciferi lombardi» (Giurassico), formazione che affiora in tutta la fascia prealpina della provincia di Varese (Campo dei Fiori).

Le cave sono ubicate nella Val Ceresio in prossimità del confine svizzero (Brenno, Viggiù, Saltrio), coltivato in galleria o in superficie; lo spessore coltivato è limitato dal sovrastato di decine e decine di metri di roccia ricca di selce e non utilizzabile.
Il Nero di Saltrio, cavato nell’omonima località, è di colore grigio molto scuro percorso da sottili venature bianche con andamento parallelo alla stratificazione, con spessore di poco superiore al metro. Appariscente è il fenomeno dell’alterazione cromatica, che subiscono questi materiali se esposti all’aperto.

Si tratta di una modifica del colore dovuta all’ossidazione delle sostanze organiche, responsabili della colorazione nera, presenti nella pietra fin dal momento della sedimentazione. Ogni colonna estratta per Staglieno aveva una altezza di 8 m per un diametro alla base di 1 m, un volume di 6,67 mc e il peso di 18 ton. «Tratte dalle cave del cosidetto marmo nero di Viggiù, giacenti in zona interposta tra il lago di Como e di Lugano, all’erta di un monte molto elevato il quale oltre alla ricchezza di sì rinomata pietra, vanta una sorgente di acqua epatica», così lo descrive il Resasco nella sua pubblicazione del 1892 sulla Necropoli di Staglieno.

Il marmo nero che si estrae a Viggiù è tutto «calcare amorfo, argilloso, siliceo, contenente avanzi carbonizzati», nello specifico si parla di calcare di Varenna del Ladinico (Lecco) bioclastico compatto a cemento carbonatico.

Altri materiali presenti

I primi ritocchi con grossolane pennellate nere risalgono all’epoca della messa in opera, da quel momento in poi si sono succedute stuccature e patinature nere, con lo scopo di mantenere uniforme la qualità e il colore della superficie del marmo. «Prima del restauro esse presentavano un aspetto più simile alla bachelite che al marmo, come di muratura finita a stucco, simile alle pareti», questo il commento di chi ha operato in cantiere.

Risultano successivi strati di patinature diffuse e locali, e stuccature non sempre realizzati con tecniche e materiali corretti. Le stuccature sono state analizzate e hanno rilevato la presenza di uno strano impasto a base di carbonato di calcio, legante organico di resina tipo colofonia e limatura di ferro. È stato analizzato il mastice d’adesione tra le due parti costitutive delle colonne che è risultato costituito da una malta idraulica pigmentata con nero carbonioso.

Fenomeni di degrado

La stessa complessa genesi avuta dai sedici fusti di calcare nero ha influito negativamente sullo stato conservativo. La patina sulle colonne in calcare nero del lago di Como era stata indagata già nel corso del primo lotto. Essa era risultata composta da una miscela eterogenea di materiali, i cui componenti predominanti sono risultati cere (sia la vergine che la paraffina, dovuta a un rifacimento novecentesco) e un pigmento di natura carboniosa.

Dalla documentazione d’archivio non risulta che fossero originariamente applicate patinature, né si può escludere il contrario. La pulitura ha rilevato una superficie lapidea discretamente uniforme, con qualche disomogeneità cromatica dovuta alla «stagionatura» della pietra e dei vecchi ritocchi.

Oltre alle «fenditure» dovute alla giunzione dei blocchi, nuove fessurazioni si erano aperte lungo il fusto in coincidenza degli strati di sedimentazione; in alcuni punti il materiale si presentava frantumato e distaccato.

Sia per motivi estetici che statici ed economici, durante la costruzione venne lasciata la sola calotta esterna, poi decorata con rosoni, rinunciando anche al grande fregio figurato.

Sulle colonne sono stati effettuati i seguenti interventi:

  1. Prima Pulitura e deceratura. «Particolarmente complessa è stata la pulitura delle colonne nere del periptero. La sovrapposizione di numerose patine nere e di ritocchi e stucchi deturpanti sulla superficie mamorea ci ha indotti a effettuare l’eliminazione degli strati sovrammessi e recuperare la superficie del calcare nero. L’estrema disomogeneità del materiale e il difforme grado di assorbenza ha reso problematica e complessa la successiva operazione di inceratura e patinatura». Così dicono i protagonisti che hanno lavorato a questo cantiere di restauro. La pulitura dei marmi è stata dunque accuratamente preparata con test di utilizzo di impacchi solventi per quantificare i tempi di applicazione e la saturazione delle soluzioni pulenti.
  2. Trattamento omogeneizzante della superficie. Si è tentato di uniformare l’assorbimento del materiale con una mano di silicato di etile.
  3. Lucidatura con cera. Dopo il trattamento omogeneizzante della superficie si è provveduto a una inceratura delle colonne. Tuttavia tale metodo non ha dato i risultati sperati in quanto, a più riprese, continuavano ad affiorare macchie e sbiancamenti. È stato quindi necessario nel secondo lotto di lavori operare diversamente.
  4. Pulitura con solventi. Una prima pulitura e deceratura è stata eseguita con solventi ma a questo trattamento è stata fatta seguire una seconda pulitura.
  5. Seconda Pulitura. Una pulitura successiva sulle colonne nere è stata eseguita con il metodo dello Jos (leggera sabbiatura con polvere di carbonato di calcio). In questo modo sono state rimosse stuccature e pellicole, derivanti da precedenti interventi resistenti alla pulitura con solventi, e si è potuto così restituire loro l’aspetto della pietra naturale evitando l’eccessiva lucentezza dovuta a ceratura.
  6. Stuccature. Nelle vecchie fessurazioni con stuccature in parte cadute è stato effettuato un intervento di integrazione; sono state eseguite stuccature nuove con un impasto di polvere di marmo pigmentato e resina acrilica. In alcuni casi è stata utilizzata la Polifylla per interni pigmentata.
  7. Leggere integrazioni. Si è ricorso a qualche leggero ritocco di colore laddove erano rimaste persistenti macchie residue ed evidenti disomogeneità e imperfezioni della superficie.
  8. Protezione finale con ceratura. Anche la ceratura finale delle colonne è risultata essere un’operazione piuttosto delicata per l’estrema disomogeneità del materiale e il difforme grado di assorbenza. Con test di inceratura si è stabilito la sequenza migliore di applicazione delle cere e il livello di patinatura giusto. La ceratura è stata comunque piuttosto blanda ed ha utilizzato cera vergine.
Altare Maggiore dopo il restauro.

Chi ha fatto Cosa

Progetto di restauro: primo lotto
Esecuzione in cantiere: Rup arch. Liliana Pittarello
Progettista e dir. lavori: ing. Rita Pizzone
Collaboratori alla progettazione e dir. lavori: restauratori Paola Parodi e Stefano Vassallo
Coordinatore per la sicurezza: arch. Augusto Marchioni
Alta Sorveglianza: Soprintendente Liliana Pittarello
Progetto di restauro: secondo lotto
Esecuzione in cantiere: Rup arch. Gianni Bozzo
Progettista e dir. lavori: ing. Rita Pizzone
Collaboratori alla progettazione e dir. lavori: restauratori Paola Parodi e Stefano Vassallo
Ispettore di cantiere: arch. Michele Cogorno
Collaboratori Rup: arch. Michele Cogorno e Giuseppe Burgio
Coordinatore per la sicurezza: arch. Augusto Marchioni
Alta Sorveglianza: Soprintendente Maurizio Galletti

Riflessioni a margine…

Interessanti sono gli studi effettuati preliminarmente all’intervento di restauro (vedi pubblicazione riportata di seguito); da questi studi per esempio sono emerse diverse «disavventure» manifestatesi durante il trasporto delle colonne dalle zone di cavatura a Staglieno (rotture, graffi sulla superficie). La scelta nell’intervento di restauro di operare delicatamente sulla superficie delle colonne permette ora di leggere anche questa storia. Si tratta di una storia di cantiere che così si può ricostruire in parte dai documenti scritti e in parte osservando con attenzione gli elementi architettonici.

Per saperne di più

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria (a cura di), La cappella dei Suffragi Pantheon del civico cimitero di Staglieno. Studi e Restauri 2001-2004, prefazione di Rita Pizzone, Ideazione e supervisione di Rita Pizzone, ricerche di Luce Tondi, Paola Parodi, Stefano Vassallo, redazione del testo di Stefano Vassallo, Rita Pizzone e Paola Parodi, ed. APE, Genova 2004.

Daniela Pittaluga,
Università di Genova, Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio

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