Punti di Vista | Giampiero Lupatelli

A proposito di rigenerazione urbana e aree interne del Paese

È opinione corrente che una certa ripresa d'interesse nei confronti della Montagna e delle Aree Interne del Paese tragga le sue origini dal fallimento delle economie e delle culture metropolitane nell’assicurare sentieri di crescita equilibrata e sostenibile che consentano ai loro abitanti – vecchi e nuovi - di rinnovare con fiducia il loro progetto di vita in queste stesse realtà metropolitane.
Giampiero Lupatelli | Economista, socio Audis.

Non è sfuggito agli osservatori più attenti delle trasformazioni territoriali l’emergere di un legame intenso, per quanto difficile da esprimere e da qualificare, che si manifesta tra due realtà apparentemente agli antipodi.

Geografie sentimentali

Le due realtà sono rispettivamente quella dei luoghi urbani e metropolitani investiti dai processi di rigenerazione urbana e quella delle aree interne e, tra queste, delle più estreme e deprivate – soprattutto montane – in cui ha preso avvio il processo, prima lento e ora spumeggiante, di costituzione delle cooperative di comunità.

Luoghi diversissimi, innanzitutto per la loro collocazione nello spazio e per la connotazione di questo spazio nelle metriche tradizionali dell’analisi, lungo l’asse centro-periferia o quello urbano–rurale.

Diversi anche per la natura dei soggetti che le presidiano o che si affacciano sulla scena come nuovi protagonisti del loro essere ri-abitate.

E, pur tuttavia, aree che si propongono con tratti comuni alle sensibilità degli attori sociali e, ancor prima, dei precursori e dei pionieri che cercano d’interpretarne e di tracciarne i possibili destini; tratti comuni di una “geografia sentimentale” ricca di suggestioni e anche di implicazioni operative.

Interroghiamoci allora su quali siano i tratti che accomunano – nel loro rapporto con i luoghi – queste esperienze, all’apparenza così distanti tra loro. Una risposta da cercare anche – e forse in prima battuta – nella stessa natura dei luoghi.

Luoghi, innanzitutto. Viene alla mente quel che Chistian Norberg Schultz dice a proposito del patrimonio culturale e che si può analogamente ridire parlando di rigenerazione urbana e di rimessa in gioco dei borghi dell’Appennino: che, cioè, esso “modifica il significato dello spazio, trasformandolo dall’essere un sito all’essere un luogo, perché li entra in gioco la vita”.

Luoghi nei quali il progetto di trasformazione fisica e imprenditoriale non può mai essere disgiunto dall’innovazione sociale necessaria a consentirlo.

Luoghi fragili, per il venir meno delle ragioni tradizionali che li hanno plasmati e per l’ancora incerto affacciarsi di nuove visioni e nuove prospettive di senso.

Luoghi sfidanti che chiedono agli attori che su di essi esprimono diritti di proprietà (e sentimenti di appartenenza) di confrontarsi con attori diversi.

Attori diversi ma con la disponibilità e volontà di riconoscere il patrimonio di culture, di tradizioni e di significati che i luoghi esprimono per agire, contemporaneamente, a innestare su questi luoghi nuove attività, nuove funzioni e nuovi progetti. In un equilibrio mobile tra conservazione e trasformazione che l’immagine della rigenerazione esprime con efficacia.

Un rinascimento montano?

È opinione corrente che una certa ripresa d’interesse nei confronti della Montagna e delle Aree Interne del Paese tragga le sue origini dal fallimento delle economie e delle culture metropolitane nell’assicurare sentieri di crescita equilibrata e sostenibile che consentano ai loro abitanti – vecchi e nuovi – di rinnovare con fiducia il loro progetto di vita in queste stesse realtà metropolitane.

Inquinamento, congestione, aumento delle disuguaglianze e del disagio sociale sarebbero le ragioni del minore appeal delle aree urbane e del rivolgersi di quote minoritarie ma significative della popolazione alle Montagne, alla ricerca di nuove e diverse condizioni dell’abitare.

Questa narrazione, forse non maggioritaria ma ricorrente, sembrerebbe urtare però con l’evidenza statistica che ci racconta invece di un’immigrazione verso la montagna che anche quando si è manifestata con un saldo positivo come è avvenuto nel nuovo secolo sino a pochi anni fa, è stata l’espressione di una corrente in ingresso di cittadini stranieri, fasce sociali deboli che (come sempre nella storia) trovavano occasioni più agevoli di insediamento (e anche di integrazione) nei varchi aperti nella compagine demografica montana dall’invecchiamento, dalla bassa natalità e dal permanere di flussi in uscita che, per la popolazione di nazionalità italiana, non hanno mai smesso di avere un saldo negativo.

Un racconto che sicuramente poggia su biografie e storie vere: è possibile incontrare e riconoscere in gran parte delle nostre montagne giovani scolarizzati che mettono a frutto competenze e skills sofisticati in perigliose e originali imprese a metà strada tra le radici antiche nelle produzioni primarie che le competenze scientifiche permettono di rivedere e rinnovare, e le modernissime attività di servizi sviluppate con canali di relazione con il mondo poggiati sulle tecnologie (e le culture) digitali.

Questo racconto è tuttavia a un tempo troppo ingenuo nell’interpretazione e troppo semplice nella visione.

È ingenuo perché trasforma in trend segnali che invece marciano (ancora) in controtendenza, ed è troppo semplice, verrebbe quasi da dire semplicistico, perché stabilisce un rapporto immediato tra il declino possibile (e auspicato?) delle aree urbane e un preconizzato successo della montagna o delle aree interne.

È abbastanza evidente, in realtà, che il successo delle aree urbane dovrebbe stare a cuore a tutti noi, visto il loro rilievo largamente maggioritario nel determinare le condizioni di benessere dell’intero Paese.

Le ragioni della sostenibilità

Naturalmente dobbiamo pensare a un successo che per le sue modalità non avviene sottraendo risorse (umane, economiche, ambientali) ad altre realtà né che scarica su queste stesse realtà esterne le proprie contraddizioni.

E qui entra in gioco la strategia della rigenerazione urbana che punta a sostenere lo sviluppo delle economie urbane mettendo in valore le risorse proprie della città, a partire dai suoi tessuti urbanistici e sociali, evitando il consumo di suolo e favorendo la migliore sostenibilità di processi ad alto impatto, come quelli che riguardano la gestione della mobilità e del clima urbano. Una strategia che “modifica il significato dello spazio…. perché li entra in gioco la vita”.

Un ciclo virtuoso di rigenerazione urbana, guidato da una visione consapevole che sostenibilità, conoscenza e orientamento all’innovazione rappresentano ormai le driving forces dello sviluppo economico, può stabilire relazioni davvero importanti con quel rinascimento montano, che in molti auspichiamo.

Per intenderne le ragioni dobbiamo guardare più in profondità alle trasformazioni sociali in corso e ai processi culturali che le accompagnano.

Siamo di fronte a processi di mobilità territoriale che, come mai nel passato recente, hanno proporzioni gigantesche e attraversano il progetto di vita di quote rilevantissime della popolazione, in Italia, in Europa, nel Mondo. Spostamenti e migrazioni che attraversano spazi amplissimi e presentano però caratteri di reversibilità, temporaneità, conservazione dei rapporti.

Nei flussi della globalizzazione è in discussione in qualche misura lo stesso modello d’insediamento che nella rivoluzione neolitica di 12.000 anni fa ha fatto sorgere le città sconfiggendo (con la drammaticità di cui il racconto biblico di Caino e Abele è testimone e Bruce Chatwin è l’aedo) il nomadismo come forma tipica del popolamento umano.

Un nuovo nomadismo, cosmopolita, acculturato ed esplorante, è riconoscibile – anche oltre i tratti talvolta drammatici che flussi migratori assumono nel varcare i mari e i deserti– nel comportamento delle generazioni più giovani, nello spazio europeo di Erasmus, nella rete delle relazioni tra le città globali, negli stessi flussi che connettono aree interne di contesti geografici distanti come il nostro Appennino e le montagne dei Balcani.

Anche, nelle relazioni di più breve raggio delle relazioni sentimentali che si fanno impegno e impresa in quelle cooperative di comunità che nei borghi più discosti di Appennino tengono assieme nativi, emigrati, ritornanti e cittadini di adozione; insieme in un impegno volto ad assicurare che il flusso della vita scorra nei luoghi con l’apporto differenziato – ma partecipe e mutualistico – di molti soggetti di assai diversa natura.

Nomadismi nuovi

Nella società che è faticosamente chiamata a fare i conti con le nuove forme di nomadismo le città, abbandonate dai modi della produzione fordista, da rigenerare e riabitare con nuove formazioni sociali, e le estreme comunità rurali che si vogliono strappare dall’oblio, condividono l’esigenza di costruire nuovi patti mutualistici.

Patti di cooperazione tra diversi per costruire risposte pragmatiche e visionarie all’esigenza di far convergere interessi diversamente disponibili – per intensità, durata, motivazione – ad attribuire ai luoghi significato e valore condiviso.

Tutto questo metterà in discussione la distinzione tra comportamenti e  ruoli dei cittadini e dei montanari (o dei cittadini e dei contadini) molto più di quanto non abbia fatto in passato l’inurbamento accelerato degli anni ’50 e ’60 o la progressiva diluizione dell’identità urbana nello sprawl suburbano degli anni ’80 e ’90 del XX secolo.

In discussione sono le stessa fondamenta proprietarie di un modello insediativo eccezionale per l’intensità e la centralità che ha definito il ciclo edilizio nella vicenda economica del Paese ma che, al volgere del nuovo secolo, sembra oramai sul viale del tramonto.

Ne sono un esempio evidente in montagna le seconde case in proprietà i cui costi fiscali e manutentivi sembrano ormai sopravanzare le utilità di famiglie e generazioni che hanno cambiato radicalmente i propri calendari e modelli d’impiego del tempo libero.

Ne è esempio in città la domanda crescente che si rivolge verso forme di social housing (ormai apertamente riconosciute dal mercato, in settori specifici come quello universitario) spinte non solo dai vincoli di bilancio familiare ma dalla stessa frammentarietà e temporaneità dei progetti di vita.

Per questo, nelle Montagne e nelle Aree Interne che affrontano una nuova stagione di sviluppo locale, come nelle Città che si vogliono rigenerare, le politiche debbono saper guardare e parlare a più di una popolazione: quella residente (che non sempre risiede davvero, trascorrendo altrove parti significative della giornata, della settimana o dell’anno), quella presente per frazioni del proprio tempo giornaliero, settimanale o stagionale, quella che si è trasferita altrove ma mantiene relazioni economiche, culturali e affettive assai significative, quella in ingresso per periodi più o meno lunghi del proprio ciclo di vita che sta esplorando le ragioni e i sentimenti di adesione – anche parziale – a un luogo.

Senza dimenticare, come mi ricorda affettuosamente un critico amichevole, che esiste ancora chi nasce, cresce, vive e muore nello stesso luogo, con una certa soddisfazione.

A tutti questi soggetti devono saper parlare le visioni di futuro e le politiche di sviluppo sostenibile che debbono – loro sì – sempre più radicarsi nei luoghi per riuscire a intercettare con le loro traiettorie gli universi simbolici e le coalizioni d’interessi materiali su cui si può fondare il riconoscersi – comunque provvisorio – di comunità in cammino, la cui fedeltà ai luoghi del cuore sempre più è un progetto piuttosto che non un destino.

Giampiero Lupatelli, economista esperto in materia di sviluppo locale e pianificazione, socio Audis

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