Punti di vista | Bruno Gabbiani, Presidente Ala Assoarchitetti

Architettura senza architetti? Il rimedio al disagio non dev’essere la rinuncia alla qualità

In un momento in cui è significativo il confronto sulle professionalità, Bruno Gabbiani delinea una strategia affinché l'urbanistica e l'architettura possano tornare a essere un bene pubblico primario. Con i professionisti che possono ancora "proporsi" come mediatori culturali tra Stato, istituzioni e cittadini.
Bruno Gabbiani | Presidente Ala Assoarchitetti
Bruno Gabbiani | Presidente Ala Assoarchitetti

Dopo i tentativi delle precedenti edizioni, proseguendo nel percorso iniziato nel 2008 da Aaron Betsk, con Architecture Beyond Building, continuato da Kazuyo Sejima nel 2010 e da David Chipperfield nel 2012, con Common Ground, la XV Biennale di architettura di Venezia sembra aver davvero accantonato le archistar, per sviluppare un ragionamento più agguerrito sulle istanze sociali degli abitanti delle aree degradate e sugli spazi pubblici in genere.

Non a caso Alejandro Aravena, che con la direzione della Biennale ha ricevuto la consacrazione del Pritzker, proviene da un’esperienza assai differente da quella dei suoi predecessori, tutti in qualche modo impegnati in grandi progetti di risalto internazionale.

Al punto che propugnata da lui, “l’architettura senza architetti” ha perduto la connotazione snobistica di chi insegue un concettuale e improbabile spontaneismo felice, per pervenire a criticare il disallineamento tra le istanze sociali delle masse sfavorite e il ruolo di un’architettura globale, che vuole stupire e che finisce per identificarsi in esibizioni tecnologiche per sceicchi e capitalisti cinesi.

La polemica ideologica di Aravena tenta così di nobilitare la povertà – brutta da vedere ma ideologicamente innocente – delle masse diseredate e d’interpretare un’istanza dal basso, che sembrerebbe provenire dalle bidonvilles del terzo e del quarto mondo, per trasformarla in una spinta vitale.

È evidente che di fronte a bisogni elementari essenziali, come la casa e un ambiente che almeno non induca al degrado morale e materiale, l’urbanistica e l’architettura possono ritornare ad essere un bene pubblico primario. La condivisione e la partecipazione degli utenti al progetto, possano inoltre permettere di sperare d’andare oltre la ricerca delle soluzioni formali, per dar spazio ai contenuti sociali essenziali e alla lotta alla speculazione più brutale. Il tutto in quel solco che nell’età contemporanea ha portato una scuola d’architetti ad assumere in modo ricorrente, il rischio della rivolta contro le forze che hanno calpestato oltre il tollerabile il bene collettivo.

Ovviamente questi nobili atteggiamenti non hanno interrotto e nemmeno rallentato, la produzione delle esibizioni d’orgoglio e potenza, che le grandi firme continuano a sfornare in serie di varietà in tutto il mondo, corrispondendo alle richieste di poteri forti pubblici e privati. Beninteso nulla di nuovo, poiché ogni epoca ha esibito il potere e lo ha caratterizzato in modo duraturo, proprio con le realizzazioni dell’architettura e dell’urbanistica.

Sembra però che tra le esibizioni faraoniche dell’oligarchia internazionale e la teorizzazione dello squallore delle favelas risanate come modello futuro diffuso, non vi siano più spazi degni d’essere menzionati e difesi, come espressione di ceti produttivi, tradizioni, stili di vita e consapevolezze culturali, che hanno fatto la fortuna economica e sociale dei Paesi democratici dell’Occidente, nei quali è lecito ammettere che la maggioranza viva decorosamente.

Sembra che il saper interpretare i bisogni intermedi, il saper instillare la qualità nella miriade d’occasioni diffuse che la possono produrre, improvvisamente non interessi più a nessuno: né ai populisti che provengono dai laboratori delle università d’avanguardia, né tantomeno ai committenti delle archistar. Tutti soggetti che poco considerano le aspirazioni al benessere, all’ordine, alla stabilità, di coloro che si trovano tra l’estrema ricchezza e l’estrema povertà e che sono stati fino a poco tempo addietro la maggioranza, nella maggior parte dei Paesi dell’Occidente.

Se è così, gli architetti, come le imprese di costruzione del nostro Paese, che sono stati esempi di qualità del progetto e dell’esecuzione, sono tra le vittime conclamate di questo strabismo, poiché non hanno più difensori e ormai più nemmeno mercati, pur configurando un modello di qualità diffusa, che invece potrebbe avere un mercato in quei Paesi in via di sviluppo, dove il divario sociale è fortissimo. Rischiano invece di sparire assieme, cancellati dal processo generale di disintermediazione, che ha colpito prima i sindacati, poi la politica e la “rappresentanza” in generale, poi le istituzioni e che ora sta erodendo i saperi applicati, tradizionalmente concentrati nelle libere professioni.

Gli architetti, come i medici e gli avvocati hanno a nostro avviso soltanto una via per sfuggire a questa morsa mortale, che è quella d’abbandonare le posizioni prevalentemente mercantilistiche di produttori di servizi troppo costosi, che li hanno resi invisi all’opinione pubblica, per rifocalizzare la propria immagine sui valori, principalmente etici e culturali, di chi con il proprio sapere può porsi come “mediatore culturale” tra Stato, istituzioni e cittadini, come promotore dei diritti fondamentali di cittadinanza nella difesa del territorio e del paesaggio, della salute, delle libertà collettive e individuali e del patrimonio personale. Un tentativo difficile e forse tardivo, che deve iniziare con il rilancio dei valori etici e sociali del lavoro intellettuale.

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