Punti Di Vista | Bruno Gabbiani, Ala Assoarchitetti

Decreto Semplificazioni: i limiti alla rigenerazione urbana

La commissione Affari Costituzionali e Lavori Pubblici del Senato ha approvato con modificazioni il “Decreto semplificazioni” del Governo, limitando in modo significativo le possibilità operative previste dall'articolo 10, che, nella stesura originaria, concedeva di demolire e ricostruire con intervento edilizio diretto gli edifici esistenti - anche se non rispettano i parametri delle distanze minime - al fine di consentire la rigenerazione urbana di aree che soffrono dall’origine per una mancata o per una carente pianificazione.
Bruno Gabbiani | Presidente Ala Assoarchitetti.

Le possibilità operative previste dall’articolo 10 del decreto Semplificazioni da parte del Governo avevano provocato da più parti preoccupazioni, in ordine alla conservazione dei caratteri di pregio della Città, che sono sfociate nell’emendamento approvato dalla Commissione.

La modifica stabilisce che in tutte le zone “A” si possono demolire e ricostruire edifici esistenti solo se inseriti in un piano particolareggiato di recupero e di riqualificazione.

In mancanza di apposita pianificazione, la demolizione e ricostruzione possono essere consentite soltanto se l’edificio ricostruito mantiene sagoma, sedime e prospetti di quello preesistente, riprendendo una definizione tecnico-legislativa di “Ristrutturazione” che dopo molti anni di polemiche e dibattiti, risultava ormai superata.

Tutti ben sappiamo che le zone “A” sono comunemente assai più ampie dei centri storici e che nel loro stesso ambito esistono aree degradate, comparti con destinazioni d’uso incompatibili o abbandonati e in ogni caso edifici incongrui e privi di qualità, che devono essere demoliti e ricostruiti attribuendo loro conformazioni e aggregazioni ben diverse da quelle attuali.

Ben sappiamo inoltre che l’intervento puntuale, qualora non coordinato al contesto sotto il profilo urbanistico – spaziale e della dotazione dei servizi, ben difficilmente può apportare quella rigenerazione urbana di qualità, che è fattore di promozione sociale e obiettivo ultimo del provvedimento. Il che impone che il piano di recupero preveda anche interventi a scala urbanistica e non solo una minuta regolamentazione puntuale a livello edilizio.

L’impressione in ogni caso è che la Commissione, anche se in quel frangente le esigenze principali erano la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti, abbia dato la consueta e più facile risposta formalistica e burocratica a un problema esteso, urgente e concreto quale quello della rigenerazione urbana, imponendo il vetusto e notoriamente inefficace strumento del piano particolareggiato.

È pur vero che a 42 anni dall’emanazione della legge 475/1978 – che all’articolo 28 istituiva il dispositivo urbanistico del Piano di Recupero – il fatto che esistano centri storici che non ne sono ancora dotati costituisce un’omissione grave delle amministrazioni locali.

Tuttavia, sotto il profilo della sostanza, sappiamo bene che il piano particolareggiato, di per sé non sarà in grado di produrre l’auspicata qualità urbana, ma che sarà efficacissimo nell’ingessare gli interventi per anni, instaurando lunghi e complessi procedimenti amministrativi fine a sé stessi.

Ciò detto, dobbiamo anche considerare quattro fattori recenti, che sono destinati ad avere una forte influenza:

  • la legislazione regionale sul bilancio zero nel consumo dei suoli, ormai estesa a tutto il territorio nazionale;
  • il fatto che circa il 40% degli immobili dei centri storici minori è vuoto, come informava uno studio del 2018, tuttora valido;
  • la pandemia del Covid-19 e l’esperienza del conseguente lockdown, che ha imposto di riconsiderare in modo operativo la “vivibilità” degli spazi domestici interni ed esterni;
  • le leggi in materia edilizia e fiscale, che impongono d’attribuire agli edifici ristrutturati, miglioramenti sostanziali in materia antisismica, energetica e prevenzione incendi.

Ebbene, proprio una progettazione edilizia che prenda obbligatoriamente in considerazione questi aspetti in maniera integrata, costringe gli operatori privati a virare più decisamente verso il concetto di ”sostituzione edilizia” che non di “ristrutturazione”, poiché questa seconda non è economicamente percorribile nella maggior parte dei casi, sia per raggiungere gli obiettivi complessivi della normativa, sia per conferire agli aggregati urbani una nuova qualità, in termini spaziali, della dotazione dei servizi, dei collegamenti e dei trasporti, del verde.

È quindi necessario riconsiderare che cosa vada effettivamente e materialmente tutelato e protetto nel tessuto architettonico urbano dell’ultimo secolo e che cosa, viceversa, possa essere “abbandonato” per lasciare spazio alla produzione dell’architettura e della città contemporanea.

È anche sicuramente necessario ricorrere a strumenti urbanistici più agili del piano particolareggiato, quali ad esempio gli accordi pubblico – privati di pianificazione, se si vuole iniziare a risolvere questo immenso e progressivo problema del nostro Paese e contemporaneamente riavviare il motore dell’industria delle costruzioni e con esso quello dell’intera economia nazionale.

di Bruno Gabbiani, Ala Assoarchitetti

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