Crisi del manifatturiero, torniamo a industriarci

Alfredo Nepa | Vicepresidente Gi Confindustria Teramo.

Il nuovo anno è cominciato con la notizia dell’Istat secondo cui l’Italia, nel 2016, dopo cinquant’anni, è tornata in «deflazione» (diminuzione del livello generale dei prezzi). Definizione, quest’ultima, che potrebbe trarre in inganno perché il calo registrato, di circa lo 0,1 %, non si traduce in un aumento della capacità di spesa a vantaggio dei consumatori.

Anzi, complessivamente, rappresenta un dramma per le imprese, che vedono diminuire il margine sui prezzi di vendita, già fortemente ridimensionato dalla stagnazione economica, a livello dei costi di produzione e spesso, anche al di sotto; ma è un dramma anche per l’occupazione, prima voce in bilancio ad essere toccata per l’inevitabile riduzione dei costi che l’azienda è costretta a perseguire.

Studi sul processo de-industrializzazione nel nostro Paese, confermano che l’industria italiana, negli ultimi trentacinque anni, ha diminuito la propria capacità manifatturiera e ha ridotto fortemente gli investimenti lasciando invecchiare le linee di produzione.

Secondo Mediobanca (dati del 2014), a partire dalla fine degli anni ‘90, il calo di investimenti è stato del 40% e a ciò è corrisposta un altrettanto ininterrotta emorragia occupazionale. La performance dell’industria nazionale di fronte alle liberalizzazioni degli scambi commerciali, tanto nel mercato interno, tanto all’estero, verso i paesi emergenti, è stata complessivamente insoddisfacente.

L’origine di questo rallentamento, secondo il prof. Riccardo Gallo, sarebbe riconducibile ad una forte riduzione degli imprenditori a intraprendere, per il venir meno, uno dopo l’altro, di tutti gli strumenti di intervento pubblico diretto in economia (cassa del mezzogiorno, fondo perduto…), e per l’impossibilità, con l’euro, di svalutare.

A mio modo di vedere tuttavia, a tale situazione, che non vede miglioramenti significativi, hanno concorso e continuano a concorrere molteplici altri fattori, sia di carattere nazionale sia internazionale.

Sul fronte interno, per ciò che riguarda l’iniziativa privata, l’insufficiente dimensione aziendale, continua ad essere un handicap fortissimo che impedisce di competere in un contesto di mercato che invece, si riorganizza attraverso integrazioni verticali e orizzontali.

Seguono poi, una specializzazione settoriale sfavorevole, pochissime realtà nel campo dell’ Itc (informatica e telecomunicazioni), uno scarso impegno e investimenti, in ricerca e sviluppo e una limitazioni all’accesso del credito.

Sul fronte statale, tasse, burocrazia, sindacati, e un sistema di giustizia incapace di fornire garanzie solide rispetto alla durata dei processi e alla certezza della pena, strozzano sul nascere, nuove realtà imprenditoriali e allontanano investitori e capitali esteri.

La crescita abnorme del debito pubblico, un sistema politico frammentato, litigioso e incapace di fare le riforme, completano il quadro e consegnano agli osservatori internazionali, un paese bloccato dalla crisi economica e dall’instabilità politico-sociale.

Sul fronte esterno, gli scenari internazionali, non ci vengono in soccorso. Persiste la saturazione di mercato causata della stagnazione economica occidentale dovuta a sovra-produzione (capacità produttiva superiore alla domanda) e aumenta la capacità competitiva delle economie asiatiche, trainate da una manodopera forte, poco tutelata sul piano dei diritti, ma capaci di esportare tonnellate di merci (o materie prime come l’acciaio) a basso prezzo, in un mercato europeo in affanno e apparentemente sbilanciato sulle importazioni extra-continentali.

Il fronte degli euroscettici aumenta non solo Italia. Una riflessione allora è opportuna. Una moneta unica è ottimale se c’è mobilità dei fattori della produzione; cioè se la moneta è capace di attrarre, sostenere e proteggere capitali, industrie, scambi commerciali e occupazione. Quale mobilità però, può esserci tra paesi con ordinamenti, lingue ed economie differenti? Dal superamento di questi problemi, dipenderà il futuro del progetto europeo e della sua economia.

Il piano «Industria 4.0», fortemente voluto da Confindustria e promosso dal Governo, potrebbe rappresentare una grande opportunità per rilanciare l’industria manifatturiera nazionale. Puntando sull’innovazione tecnologica, il piano identifica 9 aree tecnologiche coinvolte nell’automazione industriale e introduce agevolazioni fiscali per le aziende che investono in: produzione additiva, robotica industriale, integrazioni verticali e orizzontali, big data, cyber sicurezza, cloud, internet delle cose, simulazione e realtà aumentata.

Per una nazione che vive di piccole e medie imprese manifatturiere, le aggregazioni tra imprese per aumentare la dimensione aziendale, l’ammodernamento delle linee di produzione, e le innovazioni tecnologiche, saranno i principali fattori di rilancio competitivo.

La diminuzione del carico fiscale su imprese e lavoro, sarà decisiva e dovrà tornare ad essere il primo obiettivo del Governo Italiano. Oltremodo, per risolvere il grosso problema dell’accesso al credito da parte delle imprese, il Governo potrebbe varare una legislazione compatibile con le regole Ue, che indirizzi il grande risparmio finanziario degli italiani (5 mila miliardi, di cui 2 mila in gestione), verso il sistema produttivo.

Contestualmente, bisognerà potenziare e promuovere un sistema tipo il Ftse Aim Italia composto da piccole e medie imprese italiane ad alto potenziale di crescita che permetta, anche aziende sotto i 50 dipendenti, che hanno problemi di accesso al credito, di potersi finanziare in Borsa.

In nessun modo potremmo pensare di rilanciare l’economia, lasciando fallire o languire una buona parte dei 4,4 milioni di pmi, ovvero quelle con meno di 50 milioni di euro di fatturato che sono il vero sistema produttivo del paese. Le soluzioni ci sono, forse manca ancora la piena consapevolezza delle criticità, dei rischi e degli effetti, che un ulteriore impoverimento industriale potrebbe avere sulla tenuta economica e occupazionale del paese.

Alfredo Nepa, vicepresidente Gi Confindustria Teramo

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