Punti di Vista | Giandomenico Ghella, vicepresidente Ance

Ghella: «fare di più nella cooperazione internazionale»

«Per intervenire sui mercati esteri occorre essere preparati, sapendo che per ottenere risultatii è necessario valorizzare il gioco di squadra. Tenendo presente poi che sui mercati esteri ci misuriamo non solo con le imprese ma con altri sistemi-paese che godono di supporto politico, accordi quadro e finanziamenti».
Giandomenico Ghella | Vicepresidente Ance. «Non siamo più all’ultimo posto della graduatoria europea, ma sicuramente possiamo e dobbiamo fare di più. Una quantità adeguata di infrastrutture e, soprattutto, un’elevata qualità dei servizi connessi alle opere realizzate sono fattori chiave per lo sviluppo dei paesi più deboli e la riduzione della povertà. Non possiamo nasconderci di fronte a questo fondamentale dovere morale per la nostra cultura e per le generazioni future».
Giandomenico Ghella | Vicepresidente Ance. «Non siamo più all’ultimo posto della graduatoria europea, ma sicuramente possiamo e dobbiamo fare di più. Una quantità adeguata di infrastrutture e, soprattutto, un’elevata qualità dei servizi connessi alle opere realizzate sono fattori chiave per lo sviluppo dei paesi più deboli e la riduzione della povertà. Non possiamo nasconderci di fronte a questo fondamentale dovere morale per la nostra cultura e per le generazioni future».

Il sistema delle costruzioni italiano continua a crescere e a rafforzarsi nel mondo.
Negli ultimi anni, infatti, di fronte all’acuirsi della crisi e delle difficoltà sul mercato interno, sempre più aziende hanno scelto di proiettarsi oltreconfine. Solo nel 2015 sono stati aperti 231 nuovi cantieri in 89 paesi, per un valore di 17,2 miliardi di euro, facendo salire a 617 il numero dei lavori avviati complessivamente nel mondo.

È una storia di successo, come l’ha definita il ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni,  in occasione delle presentazione del Rapporto Ance alla Farnesina, quella  relativa alla presenza delle costruzioni italiane nei mercati internazionali.

I numeri parlano chiaro: il fatturato realizzato all’estero dalle imprese tricolore, dal 2004 al 2015, si è quadruplicato, passando da 3 a 12 miliardi, con un incremento percentuale del 14,5% nel 2015 e un balzo addirittura del 286% in undici anni.

Si è verificata, inoltre, una vera e propria inversione della proporzione dei ricavi: il peso della componente estera rispetto all’attività globale delle aziende è passato dal 31% del 2004 a ben il 70% nel 2015, un valore mai raggiunto prima e che coinvolge tutte le classi dimensionali d’impresa.

È chiaro che a fare la parte del leone sono soprattutto le imprese di maggiori dimensioni, ma va comunque sottolineato che moltissime medie e piccole aziende stanno imboccando con decisione la via dell’internazionalizzazione, forti dell’esperienza delle grandi e incoraggiati da un mercato ancora in espansione.

L’estero non è il bengodi, sia chiaro. Bisogna essere preparati, sapendo che per ottenere risultati importanti è necessario valorizzare  il gioco di squadra e la collaborazione della filiera.  Sui mercati esteri ci misuriamo, infatti,  non soltanto con altre aziende, ma con altri “sistemi-paese” che godono di finanziamenti, supporto politico e accordi quadro.

Per questo è fondamentale il sostegno che l’Ance sta fornendo in questi anni, attraverso tutti i canali possibili, alle imprese di costruzione, in stretta collaborazione con il ministero degli Affari Esteri, la Presidenza del Consiglio,  il ministero dello Sviluppo Economico, l’Agenzia Ice, la Sace, la Simest, le banche.

All’estero veniamo ormai riconosciuti per la qualità del nostro lavoro, le nostre imprese sono sempre più competitive e solide, capaci di farsi valere ed esprimere al meglio il proprio know how tecnologico, realizzando infrastrutture che durano negli anni e che danno sviluppo: ferrovie, dighe, ponti, viadotti, metropolitane, impianti idroelettrici.

Un percorso di crescita e consolidamento che ha consentito alle nostre aziende di conquistare importanti fette di mercato nei Paesi più sviluppati. Nel 2015 l’Italia ha ottenuto lavori in 11 mercati del tutto nuovi, tra i quali ricordo, solo per citarne alcuni, la Germania, il Regno Unito, la Repubblica Ceca, l’Ungheria.

Il 42% delle nuove commesse è stato acquisito nell’area dei paesi Ocse, per un importo complessivo di oltre 7 miliardi. Un risultato altrettanto positivo nei paesi G-20, dove il valore dei lavori acquisiti è stato di 5,6 miliardi. Circa la metà delle nuove commesse si è concentrato in Europa (tra Unione europea e extra Ue), un quadro completamente diverso rispetto a quello che registravamo fino a pochi anni fa.

Possiamo parlare, insomma, di un’espansione sistemica, perché le aziende si stanno progressivamente radicando all’estero, investono localmente ma soprattutto acquisiscono imprese locali. Basta guardare ai numeri dei contratti di concessione: nel 2015 le imprese italiane hanno partecipato a 22 progetti all’estero, per un valore complessivo di 33,8 miliardi, di cui circa 4,5 di loro diretta competenza.

Le attività all’estero hanno giocato, insomma, una sorta di effetto “salvezza” per molte imprese nazionali, con una ricaduta positiva, non trascurabile, anche sul Pil italiano. È stato stimato, infatti, che una commessa all’estero da un miliardo di euro genera un impatto diretto sul Pil italiano di 345 milioni. Questo significa che, ad esempio, nel 2014, il totale del fatturato prodotto all’estero dalle imprese italiane ha generato un impatto sul nostro prodotto interno lordo pari allo 0,7-0,8%.

Eppure l’Italia spende ancora troppo poco nella cooperazione internazionale. La maggior parte dei contributi viene versata dal nostro Paese, infatti, attraverso diverse organizzazioni multilaterali, a scapito degli investimenti diretti, che si fermano ad appena lo 0,19% del Pil. Per giunta solo l’1,3% dei trasferimenti italiani riguarda investimenti in infrastrutture, contro una media europea dell’11,1%.

La Germania riserva a questo tipo di interventi un quarto degli aiuti totali (25,3%), l’Olanda il 16,3%, la Francia il 14,4%.

Non siamo più all’ultimo posto della graduatoria europea, ma sicuramente possiamo e dobbiamo fare di più. Una quantità adeguata di infrastrutture e, soprattutto, un’elevata qualità dei servizi connessi alle opere realizzate sono fattori chiave per lo sviluppo dei paesi più deboli e la riduzione della povertà. Non possiamo nasconderci di fronte a questo fondamentale dovere morale per la nostra cultura e per le generazioni future.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here