In Europa, sempre di più viviamo in città diffuse, disperse e frammentate, i cui tessuti urbani aumentano ogni anno il proprio diametro, pur generando deserti al loro interno, città in cui centro e periferia sono parole dure e difficili da definire.
Non perché non ci siano centri o non ci siano periferie, ma perché oggi, per i fenomeni demografici e di immigrazione, per la polivalenza di culture che abitano le nostre comunità urbane, la questione è diventata irriducibile ad una semplice opposizione centro/periferia.
Se abbandoniamo la matrice storica e assumiamo una prospettiva sociale, è chiaro infatti che le aree di disagio e di sofferenza non sono le aree di ultima costruzione o le aree di margine delle nostre città, per quanto a volte la distanza dal centro sia un fattore importante sul mercato dei suoli e quindi sul costo delle abitazioni.
La periferia non corrisponde necessariamente ai quartieri geometricamente distanti dal cuore antico, ma a tutti quei luoghi – ovunque essi siano – dove c’è un’evidente assenza di ricchezza e di servizi: situazioni di degrado che si presentano in contesti geografici molto diversi.
In Italia abbiamo città dove questo tipo di periferia è nel cuore stesso della città: i Quartieri Spagnoli a Napoli così come il centro storico a Genova sono luoghi di sofferenza e di assenza di servizi. O come via Gola, a Milano: vicino alla Darsena, che è forse l’espressione massima della rigenerazione milanese, un pezzo di città bellissimo, c’è una zona dove i caseggiati popolari sono occupati abusivamente per l’80% da spacciatori che hanno installato lì un punto di immagazzinamento e distribuzione della droga.
Forse quella non è periferia? Da questo tipo di situazioni è evidente come si stiano formando, nelle città europee, vere e proprie Anticittà: qualcosa che cresce parallelo alle città, anche dentro di esse, come un corpo separato.
L’Anticittà non è qualcosa di contrapposto alla città; piuttosto, ne rappresenta una declinazione particolare: un modo – il più recente – di fare città, che convive con le altre forme storiche di produzione della città erodendole dall’interno. Un movimento interno, e insieme distruttivo, del fare città.
Due sono i connotati principali dell’Anticittà odierna. Da un lato la frammentazione del tessuto sociale: l’accostamento di monadi urbane non comunicanti tra loro, isole monoculturali senza finestre verso l’esterno, del tutto disinteressate al funzionamento dell’organismo geografico e antropologico a cui pure appartengono.
Dall’altro lato, complementare, la dissipazione: un processo costante di diluizione dell’intensità delle relazioni umane sul territorio, in cui i legami di vicinanza tra comunità differenti si allentano e gli scambi di pratiche, risorse e informazioni vengono meno. È proprio questo, secondo me, il problema centrale della città oggi: una progressiva diluizione dell’intensità urbana, di scambi e di relazioni. Si tratta di un processo progressivo di impoverimento sociale, perché dove gli scambi e le relazioni tra gli abitanti sono deboli, le città si impoveriscono.
Oggi il pericolo per la sicurezza della vita civile non arriva tanto dalle periferie geografiche, quanto dai luoghi a bassa intensità, che non corrispondono ai margini esterni di una città, ma la costellano come un arcipelago: sono queste le zone in cui si annidano i rischi maggiori, zone caratterizzate da miseria e degrado, o dalla mancanza di servizi, quanto dall’assenza di relazioni.
Zone non necessariamente povere economicamente, ma senza dubbio povere socialmente, in cui non c’è possibilità di scambio e di incontro fra persone. Ed è questo per me il problema delle nostre città: la diffusione delle aree a bassa intensità.
Le politiche urbane non possono essere semplicemente politiche che riducono le distanze centro-periferia, o che intervengono localmente per portare servizi. È necessario un intervento più complesso, che miri a promuovere condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni.
Si tratta di creare, da un lato, spazi di aggregazione, di cui le singole comunità possano appropriarsi e che possano gestire; ma allo stesso tempo bisogna creare spazi di interazione, dove le diverse comunità possano incontrarsi. Un esempio in questo senso sono le piazze italiane, da sempre luoghi dove tutto può accadere: spazi pubblici aperti, la cui indeterminatezza e generosità è per me il miglior segno dell’intensità di cui parlo.
Stefano Boeri, architetto