Essay | di Arch. Fabrizio F.V. Arrigoni

L’utopia misconosciuta

Nella stesura architettonica di Adolfo Natalini, nella sua transizione tra avanguardia e tradizione, è possibile rilevare molti percorsi su cui il pensiero utopico lascia una traccia di se stesso. Meccanicamente associato alla mossa anticipatoria lineare del movimento continuo, l'ipotesi utopica dimostra anche la sua complicità sotterranea con una pratica di resistenza e con un senso del tempo più complesso e complesso.

Cil 176 Nada está construido sobre piedra; todo está construido sobre arena, pero debemos construir como si la arena fuera piedra – Jorge Luis Borges

Saluti da Graz (Grazerzimmer) 1969; fotocartolina illustrata | © Adolfo Natalini/ archivio Superstudio

«The island of the day after» è stata la titolazione della mostra ideata e coordinata da David Palterer e Norberto Medardi per il padiglione di Israele alla Biennale di Venezia del 2004, all’interno di «Metamorphosisrael – Back to the sea». Il concept dei due curatori prospettava l’ulteriore espansione della città di Tel Aviv in direzione del mare come logica conseguenza della forte crescita subita negli ultimi settant’anni dalla città: l’intervallo occorso affinché una solitaria e dimenticata “spiaggia pastorale” divenisse il limite imposto alle pulsioni espansive di una metropoli contemporanea.

Fu dunque chiesto a cinque protagonisti delle neo-avanguardie Radicals [1] – Andrea Branzi, Peter Cook, Coop Himmelb(l)au, Adolfo Natalini, Ortner & Ortner – di immaginare una serie di nuovi insediamenti o presidi su isole artificiali da ancorare in fronte ai sedici chilometri della costa urbana, secondo una prospettiva che incrociava tra loro, senza preventive demarcazioni, pensiero della trasformazione e fantasmagoria del futuro.

Nel volume che accompagnava l’esposizione era ospitato un breve saggio di Fulvio Irace, Utopicamente [2]. Il postulato d’apertura asseriva il tramonto della strategia utopica quale derivato del più vasto crollo delle grandi narrazioni legittimanti: come due tessere che non combaciano si constatava la mutua estraneità, se non la disgiunzione, tra condizione postmoderna e visionarietà del totalmente altro.

Constatando poi il connubio, per certi aspetti paradossale, tra ou-tòpos e puntigliosa descrizione del luogo felice seguiva un rapido excursus attraverso le molteplici miscele di cambiamento sociale ed innovazione morfologica ad esso applicata, dalle “città ideali” del diciannovesimo secolo transitando per le Neues Großstädte degli anni Venti e Trenta del ventesimo, per giungere all’ingegneria esaltata di Kisho Kurokawa, Kiyonori Kikutake Yona Friedmann, Buckminster Fuller e Alexandre Chipkov ed alle drive-in city, walking-city, plug-in city degli Archigram, quasi una stilizzazione della società affluente partorita da un rinvigorito capitalismo del dopoguerra.

A chiusura dello scritto la presa d’atto che a fronte delle indomite palingenesi – otto-novecentesche ciò che sembra restare nel setaccio del nuovo millennio sia solo un’ultima quanto immarcescibile fiducia nel dettato tecnologico – dolce quanto discreto nella sua ultima veste digitale: MVRD, Meta City Data Town – a patto che esso si riveli del tutto mondato dal più trascurabile residuo di antagonismo di classe o di critica militante [3] e appoggiandosi ad uno spunto di Karl Mannheim [4] il riconoscimento che, pur nelle cicliche e talvolta rovinose cadute, la modellazione ideale aveva comunque assolto al ruolo di traguardo e meta della prefigurazione, tramutandosi nell’asse asintotico a cui far tendere le contingenti prove concrete (impiego indiretto e sotterraneo dell’utopia).

Una funzione di regolo non sempre esplicitamente affermata ma attiva e fecondante, andata miseramente ad estinguersi nel congestionato, inanimato, insignificante glomus del neoliberismo dominante (Heterogonie der Zwecke: permutazione di ogni esteriorità o conflittualità in merce, moda, spettacolo, innocua virtualità …).

Il Monumento Continuo (serie New New York, 1969-70), fotomontaggio | © Adolfo Natalini/ archivio Superstudio.

La stagione che attraversiamo pare non esser favorevole all’utopia. Eccessivi, nella loro icastica perentorietà e non più allineati con il sentire comune, gli impegni gravosi e le vaste ipotesi di corredo a quest’ultima e gli stessi future shocks che ne hanno nel passato prossimo alimentato l’anima e la tattica sono di fatto naufragati nell’indistinto mare magnum della bulimia visuale della semiosfera – distrazione, indifferenza e commedia: inevitabile approdo verso il tipo blasé, un fenomeno già pienamente descritto da Georg Simmel quasi cento anni addietro.

Detto del mainstream, il panorama contemporaneo appare comunque meno univocamente definito di quanto appaia ad uno sguardo panoramico; un indizio di tale polifonia la ricca messe di studi ed approfondimenti affrontati negli ultimi anni che hanno avuto al loro centro l’analisi delle alternative urbane ed architettoniche sorte a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso – Cold War Architecture è la sigla-periodizzazione adottata da certa pubblicistica anglosassone il cui fulcro più gravido di conseguenze potrebbe essere compreso tra due esposizioni organizzate al MoMA di New York: Visionary Architecture,1960, ed Italy: The New Domestic Landscape, 1972 [5, 6].

Un agone ermeneutico che sovente è stato la premessa opportuna per riaprire archivi e collezioni e riportare nelle sale di musei ed istituzioni i tanti documenti e le tante tavole che hanno marcato una stagione della ricerca nella disciplina.

Il Monumento Continuo (serie New York, 1969-70), fotomontaggi © Adolfo Natalini/ archivio Superstudio.

Non sfugge la radice sostanzialmente europea e nord americana di tale koiné ma, seppure con un raggio considerevolmente più ridotto, alcuni “casi” hanno interessato anche il nostro Paese.

Tra essi il più evidente riguarda l’avventura di Superstudio. Già presenti in numerosissime  panoramiche di stampo internazionale, quattro volumi monografici pubblicati dal 2003 ne hanno tentato una più stabile sistemazione storiografica, oltre l’occasionale repêchage [7-11].

In particolare si distingue la paziente e prolungata indagine di Gabriele Mastrigli a cui si deve la più esaustiva raccolta ed ordinamento di fonti disponibili del gruppo fiorentino (1).

Di Superstudio qui ci occuperemo di una sola produzione, selezionata tra le altre per il suo mantenersi enzima capace di gemmazioni, riprese, talvolta spudorati calchi (l’utopia revenant).

Tratteremo del Monumento Continuo utilizzando primariamente il “quaderno numero 12”(2) di Adolfo Natalini, il supporto su cui prese progressivamente fisionomia l’oggetto in questione; assai meno noto delle stampe litografiche si tratta di un album Esquisses Canson datato 19 maggio 1969/11 gennaio 1970 sin ora reso pubblico solo per stralci.

I primi appunti fissano l’artefatto frontalmente, secondo una pseudo prospettiva: si tratta di una struttura che si approssima ad un acquedotto con spesse pilastrate che nella loro costante scansione incorniciano un orizzonte lontano su cui insistono bassi rilievi scuri.

Sin dai suddetti tentativi embrionali del tutto compiuto appare l’assetto-matrice: un costrutto la cui grande dimensione proviene dal montaggio seriale di un’unica e ripetuta molecola base quadrata: un’immagine «impassibile ed inalterabile la cui statica perfezione muove il mondo attraverso l’amore che fa nascere per sé».

Cristallo “egizio” privo di ogni riferimento organico – colore, matericità, peso – ed il cui unico decus consiste nel suo ordinamento inscalfibile ed immutabile. Il taccuino è stato compilato nell’estate durante la quale l’atelier è impegnato nella proposta da presentare al concorso di idee bandito dalla Sezione Culturale del Governo regionale della Stiria (Austria) il cui tema recitava: “Architettura e libertà” [12]. I risultati di questa iniziativa confluirono poi in una esposizione nell’ambito della Biennale Trinazionale Trigon ‘69 di Graz all’interno della quale Superstudio realizzerà, presso il Künstlerhaus, La stanza di Graz, un’istallazione che nelle intenzioni degli autori doveva offrirsi come annuncio del Monumento stesso [13].

Gli studi preparatori si frappongono tra loro, al punto che le due operazioni devono considerarsi coeve e mutuamente interdipendenti. Può sorprendere come già l’album squaderni con sicurezza le tre occasioni nelle quali l’opera manifesta la sua portata visionaria; sono i contesti poi ripresi nel dattiloscritto cha commenta uno storyboard per la società televisiva americana M.C.W.: le città, le antiche vestigia, la natura(3).

«Abbiamo presentato un “modello architettonico d’urbanizzazione totale” come logica risultante di una storia “orientata”: una storia di monumenti iniziata con Stonehenge e che, passando per la Kaaba e il VAB, trovava il suo logico completamento con il Monumento Continuo […] il polo estremo di una serie di operazioni progettuali coerenti che portiamo avanti di questi tempi, dal design all’urbanistica, come dimostrazioni di una teoria enunciata a priori: quella del disegno unico» [12].

Il quaderno numero 12 mostra inequivocabilmente il «processo riduttivo» o del «minimo sforzo» che diviene il fine ed il mezzo delle ricerche del gruppo dal 1969 al 1973; ininfluenza del contesto, del fattore di scala, della destinazione d’uso sono del tutto evidenti già in questo fascicolo dove una superficie omogenea ed isotropa – una superficie neutra sarà la sua nominazione ultima – avvolge qualsivoglia solido transitando senza soluzione di continuità dall’oggetto al mobile, dall’environment all’architettura.

Ma di che cosa è la prefigurazione, o l’anticipo, il Monumento Continuo? Prima di tentare una risposta ricordiamo da dove esso proviene e a quali ordini del discorso sembra riferirsi. Alcuni indizi derivano direttamente dalle dichiarazioni di intenti; innanzitutto esso vuol essere un atto fondativo, esemplare quanto autosufficiente, ed in questa sua vocazione un gesto assoluto ed irrelato, atemporale e sovrastorico.

Tuttavia tale stato primordiale, carico di energia germinale, non è raggiunto al pari di un ritorno piuttosto in grazia di un superiore, integralmente dispiegato, potenziamento del piano tecnico: «un’architettura tutta egualmente emergente in un unico ambiente continuo: la terra resa omogenea dalla tecnica, dalla cultura e da tutti gli altri imperialismi».

Da questi opposti slanci temporali – verso il remotissimo e verso il domani più lontano: traguardi comunque inattingibili – discendono le paradossali miscele di rammemorazione e strappo, Ur-heimatstätte ed Ent-stellung. Superstudio rintraccia e raccoglie sparse parole d’ordine ed ideologie egemoniche, le avvicina e le assembla senza cautele, guidandole e spingendole alle loro ultime conseguenze – da qui la reductio ad absurdum e l’uso dissolvente dell’ironia.

Il Monumento Continuo (Rockefeller Center 1969), fotomontaggio | © Adolfo Natalini/ archivio Superstudio.

Dunque, più che futurologia assistiamo ad una specie di ipertrofia dell’immanente, il ritratto caricaturale di uno stato di cose, di una accelerazione delle tendenze in essere.

Più che una visione utopica – Città del Sole, Età dell’Oro, Dimora Originaria, Eden, Pantisocracy – il Monumento è apparecchiatura apocalittica, cioè dispositivo finalizzato alla rivelazione ed allo smascheramento di ciò che è.

Utopia revenant abbiamo azzardato; revenant perché mobile, perché ritorna, ma anche perché dell’utopia classica sembra esserne solo il sottile spettro, il simulacro diafano.

Lo scarto del Monumento dalle tante riprese recenti risiede in questa sua dubbia proiettività che non vuol convertirsi in «sogni e schermo all’orrore del reale».
Nel contributo inviato al numero 5 del maggio-giugno 1972 di “In. Argomenti e immagini del design” (Distruzione e riappropriazione della città) Superstudio affronta la questione senza fingimenti argomentando tre passaggi lungo un processo di emancipazione: ci sono stati (e ci sono) i luoghi concreti (topoi); ci sono stati (e ci sono) luoghi come fate morgane (utopie) non ci sono (ma dovranno pur essere postulati) luoghi come larve dell’Averno che provocheranno il risveglio, il riscatto da una «condizione infelice».

Anti-utopia: una temperatura emotiva e concettuale che si specchia nelle acide distopie variamente apparecchiate da J. B. Ballard, Philip K. Dick, William Burroughs [14].

«In 1973, we felt our mission in the avant-garde had run its course. We hadn’t won the war, only a few battles. We believed that the time of destruction was over and it was now time for reconstruction […] In 1979, I felt that the time for apprenticeship, research and studies was over (I was 38). I decided to become an ordinary architect» [15, pp. 25-26]. L’intervento di Adolfo Natalini al simposio “Superstudio and Radical Architecture Today” a tutta prima ricapitola il finire di un periodo e narra di un cominciamento i cui contrassegni avranno d’ora in avanti scaturigine dal dato empirico, dal concreto bauen.

Bau der Zukunft, fu il compito e l’urgenza degli artefici del Moderno; viceversa abbiamo constatato come il tenore apocalittico dell’agire di Superstudio appaia confermare l’enunciato di Andrea Branzi secondo cui «l’utopia non è nel fine ma è nel reale » [16]: un rovesciamento ed una torsione da obiettivi separati e distanti – siano essi di correzione, di riparazione, di risarcimento o di vendetta –, a favore di un ruolo, qui-ora, di illuminazione e liberazione dalle cecità di una cattiva coscienza.

Con un balzo abbandoniamo gli anni che dal 1972 corrono al 1978, gli anni di fine apprendistato e di lenta rifondazione antropologica dell’architettura per una riflessione sul Natalini architettore; tentiamo una riflessione allorquando i disegni e le scritture si orientano verso la pratica del cantiere e della costruzione, non più promosse ed ancorate ad una architettura di levatura mentale, un’architettura assente, uccisa o suicidata.

Si tratterà di impegni nelle “piccole capitali” italiane e tedesche sino all’apertura, nel 1991, dell’atelier Natalini Architetti in concomitanza con l’invito e la partecipazione al concorso per l’area della Waagstraat a Groningen e l’avvio del lungo ciclo di lavoro nelle terre d’Olanda [17].

Di questi oltre trent’anni di attività spesa nella riparazione urbana della città europea la cifra critica più ricorrente è quella che ruota attorno ai rapporti tra regionalismo ed internazionalismo [18] o nel binomio contemporary traditionalism e neo/super-modernism per restare nella terminologia del critico Hans Ibelings [19].

Il tema che qui si impone è il divario tra l’immaginario di Superstudio ed il successivo impegno dei Natalini Architetti. Vogliamo proporre una decifrazione che muove proprio dal piano della coscienza anticipatrice che qui saggiamo; ci soccorre a tal fine un’intuizione di Ernst Bloch che potremmo riassumere nello scorgere una sotterranea complicità tra la «tradizione utopica» ed i lineamenti di «un’utopia saturata di tradizione», poiché «esiste un futuro nel passato» [20, p. 299].

“Figure di pietra” è il primo, ed unico, tentativo di riordino teorico d po la stagione delle neoavanguardie radicali [21]. Dismessa l’enfasi declamatoria l’argomentazione si dipana attorno a cinque parole-chiave: i “luoghi”, gli “elementi”, le “figure”, la “costruzione” il “tempo e la memoria”. Avvertito dal suo autore più come fedele diario in-fieri che manifesto d’intenti con le stimmate della definitività a noi sembra che le linee di ricerca qui annunciate e descritte mantengano intatta la loro forza seminale negli anni, sì che non possono essere disconosciute allorquando si debba decifrare l’architettura nataliniana iuxta propria principia [22].

Spostiamo l’attenzione all’ultima stazione presente nell’elenco; il progetto di architettura emancipa una leopardiana scontentezza per il presente con visione strabica: per un verso esso si genera affondando nelle ragioni e nelle vicissitudines che nel tempo hanno scolpito la fisionomia dei luoghi, per altro è condensazione ed organizzazione dei bisogni, delle aspirazioni, dei desideri scagliati nell’avvenire; un passo doppio che l’architetto pistoiese riconduce sovente alla coppia di Heimweh e Sehnsucht, dove il non-più ed il non-ancora si distendono come le ramificazioni fantasmatiche di un tronco comune.

Una concatenazione che consegna alla temporalità un ruolo cardine nel fenomeno architettonico, revocando l’imperio delle categorie spaziali variamente definite ed articolate sulla soglia del novecento – Raumkunst, Raumleben, Raumgestaltung(4)…Ma se l’intellettualità del comporre sembra capace, in consonanza con il suo etimo, di trattenere assieme il ritorno e la memoria con la partenza e la speranza, è nel corpo dell’edificio costruito che la contesa e la complicità con il tempo diventa cruciale.

Recuperando e riposizionando l’ottuso e duro persistere come discrimine valoriale si instaura una tensione non risolvibile con l’inconcussa finitezza della costruzione: «ma le storie, cadenzate dal tempo, sembrano voler indicare un altro tempo, slegato dai ritmi del calendario (delle cronache e delle mode) per indicare un possibile tempo lungo una resistenza al passare veloce del tempo come se l’architettura (come il suo autore) fosse approdata a una grande età dove il tempo è più lungo (quasi immobile) e i ricordi e le speranze sono ugualmente presenti» [23, p. 13].

Osservato da questa latitudine scivola del tutto al margine la più volte denunciata «vocazione storicista dell’architettura italiana»; non di ascendenze o di repertori estetico-formali si tratta quanto di una volontà di permanenza, di un tragico attrito al rotolare nicciano verso una x, alla nientificazione incombente.

Istogrammi di Architettura,1969 | © Cristiano Toraldo di Francia.

«L’architettura è un’arte della durata. L’architettura è un’arte della resistenza non solo contro il clima e le catastrofi, ma anche contro il tempo» [24, p. 244]: irrecuperabile ad ogni Neuzeit compare l’intenzione primigenia di un affidamento, di un di-più sopravvivente «da propagare nel futuro in perpetuo».

Che fosse per fasto, bellezza, ornamento o diletto «l’immaginazione e le grandi illusioni» del cosiddetto occidente hanno confidato nel tempo lungo delle arti – e massimamente nell’architettura la cui «portentosa solidità contrasse coi secoli, e che ancor dura forse, dopo migliaia d’anni» – come talismani gettati contro l’impermanenza, la fuggevolezza dei giorni, dei pensieri e delle cose («pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obiettivo il morire …», novembre 1829) [25, 1823; 1827; 1828].

Una resistenza che non congela  a concede ad ogni fabrica di farsi carico, con successo di tempo, di usi, di accumuli, di trasmutazioni, di corruzioni, di ricordanze, di romanzesco che nella continuità ne dilatano e ne spessorano i significati ed il loro stesso essere (dimensione ontologica della temporalità).

L’indefinito, il vago ed il lontano: un’estensione inimmaginabile e del tutto libera dalle ferree predeterminazioni di ogni proiezione, di ogni finito e narciso proiectum, e che è la portata propriamente poetica della durata e della sua pulsione al fare, al (ri)creare un mondo, cioè una “totalità di senso”. Che nella stagione dell’assoluto inconsistente la più tenace utopia, il più perfetto senza-luogo, piuttosto che in siderali, eccentrici edifici-città avvenienti, debba esserescovato nello stare quieto di una banale pietra d’angolo abbandonata? 

di Fabrizio F. V. Arrigoni

Professore Associato presso il Dida, Dipartimento di Architettura,
insegna Progettazione architettonica presso la Scuola di Architettura e la Scuola di Ingegneria dell’Università di Firenze.
Redattore della rivista 
di dipartimento “Firenze Architettura”,
alterna la ricerca disciplinare 
con l’esercizio progettuale.
Tra le pubblicazioni:
Note su progetto e metropoli, prefazione di Vittorio Savi, FUP, Firenze 2004, Sinopie.
Architectura ex atramentis, Die Neue Sachlichkeit, Köln 2011

Note

  1. MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Superstudio 50, Roma 21 aprile 4 settembre 2016, senior curator MAXXI Architettura Ciorra, mostra ideata da A. Natalini, C. Toraldo di Francia GP. Frassinelli, a cura di G. Mastrigli.
  2. Il quaderno, facente parte di una serie di diciassette taccuini numerati e datati, è ora patrimonio di una collezione privata. Ringrazio l’autore per avermi dato l’accesso ad una riproduzione in fac-simile.
  3. Superstudio, Il Monumento Continuo. Storyboard per un film per una società televisiva americana (M.C.W.) basato su una serie di immagini della natura per mezzo dell’architettura, 1969. Lo scritto fu pubblicato nella sua versione integrale in “Japan Interior Design”, Superstudio. The Continuous Monument Series. An architectural Image for Total Urbanization, n. 140, 1970; una versione ridotta, composta da 80 sequenze distribuite su quattro tavole, fu pubblicata in “Casabella”, n. 358, novembre 1971.
  4. Sitte (1889), Schmarsow (1894), Endell (1908).

Riferimenti Bibliografici

[1] G. Celant, Senza titolo, IN. Argomenti e Immagini di design, 2-3 (1971) 76-81.
[2] F. Irace, Utopicamente, in: D. Palterer N. V. Medardi (a cura di), Metamorphosisrael – Back to the sea, Edizioni Polistampa, Firenze, 2004, pp. 8-14.Utopia ionerazione e strappo, le con l’o Firenze Architetturaesso la Scuola diu Architettura e la Scuola di Ingegneria
[3] M. Horkheimer, Zeitschrift für Sozialforschung 1932- 1941, Librairie Félix Alcan, Paris (trad. it. di G. Backhaus A. Marietti Solmi, Teoria critica. Scritti 1932-1941, a cura di A. Schmidt, vol. I/II, Einaudi, Torino, 1974).
[4] K. Mannheim, Ideologie und Utopie, 1929 (trad. it. di A. Santucci, Ideologia e Utopia, Il Mulino, Bologna, 1957).
[5] A. Drexler (a cura di), Visionary Architecture, The Museum of Modern Art, New York, 1960.
[6] E. Ambasz (a cura di), Italy: The New Domestic Landscape, The Museum of Modern Art, New York, 1972.
[7] P. Lang W. Menking, Superstudio. Life without Objects, Skira, Milano, 2003.
[8] R. Gargiani B. Lampariello, Superstudio, Laterza, Roma Bari, 2010.
[9] A. Angelidakis V. Pizzigoni V. Scelzi (a cura di), Super Superstudio, Silvana Editoriale, Milano, 2015.
[10] G. Mastrigli (a cura di), Superstudio. La vita segreta del Monumento Continuo, Quodlibet, Macerata, 2015.
[11] G. Mastrigli (a cura di), Superstudio. Opere 1966-1978, Quodlibet, Macerata, 2016.
[12] Superstudio, Lettera da Graz, Domus, 81 (1969) 49-54.
[13] W. Skreiner Horst G. Haberl (a cura di), Trigon ‚69: Architektur und Freiheit: Künstlerhaus Graz, Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum, Graz, 1969.
[14] G. Klein, Malaise dans la science-fiction américaine, Cahiers du Laboratoire de prospective appliquée, 4 (1975).
[15] V. Byvanck (a cura di), Superstudio. The Middelburg Lectures, De Vleeshal+Zeeuws Museum, Middelburg, 2005.
[16] A. Branzi, Introduzione, in: P. Navone B. Orlandoni, Architettura “radicale”, Documenti di Casabella, G. Milani sas Editrice, Segrate, 1974, p.  12.
[17] A. Natalini, Album olandese, Aión Edizioni, Firenze, 2003.
[18] P. Nicolin, Contestualismo e internazionalismo nell’architettura italiana, in “Lotus International”, Milano, 83 (1994) 32-41.
[19] H. Ibelings, Unmodern Architecture. Contemporary Traditionalism in the Netherlands, NAi Publishers, Rotterdam, 2004.
[20] E. Bloch, Gibt es Zukunft in der Vergangenheit?, in: Id., Tendenz-Latenz-Utopie, Suhrkamp, Frankfurt, 1978.V.
[21] A. Natalini, Figure di pietra, “Quaderni di Lotus”, Electa, Milano, 1984.
[22] Gonzo Vicari, Ultimi racconti di architettura. Intervista ad Adolfo Natalini, Costruire in Laterizio, 63 (1998).
[23] Fagone (a cura di), Adolfo Natalini Architettore, Fondazione Ragghianti, Lucca 2003.[24] A. Natalini, Perché non possiamo dirci moderni,  in “Quattro quaderni”. Dal Superstudio alle città dei Natalini Architetti, Forma, Firenze, 2015.
[25] G. Leopardi, Zibaldone, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano, 2014.

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