Punti di Vista | Alfredo Nepa, componente Consiglio direttivo G.i. di Confindustria Abruzzo

Perché l’economia italiana (e occidentale) è quasi ferma da vent’anni?

Alfredo Nepa nel suo Punto di Vista pone una serie di interrogativi ed esprime considerazioni sulla situazione dell’economia italiana caratterizzata dal mancato miracolo del terziario avanzato e dalle problematiche legate ai processi aziendali, occupazionali e finanziari.
Alfredo Nepa | Componente del Consiglio direttivo dei Giovani industriali di Confindustria Abruzzo
Alfredo Nepa | Componente del Consiglio direttivo dei Giovani industriali di Confindustria Abruzzo

In questi anni di grande caos e trasformazioni globali è facile imbattersi in testate giornalistiche e talk-show che maneggiano la materia economica con approssimazione senza una definizione chiara di quello che accade. Pur vero che l’economia è disciplina complessa e mutevole, ma ci sono dati, analisi, proiezioni e riferimenti storici, che consentono di fotografare con precisione la situazione attuale. Le posizioni prevalenti di alcun media sono spesso incerte e indefinite.
Si fa riferimento alle oscillazioni di borsa, ai dati trimestrali del Pil, stime al ribasso al rialzo, punto più, punto meno… Si auspicano interventi pubblici, piani industriali, riforme strutturali ecc. ma si perdono di vista (e non si discutono), aspetti ancora più rilevanti alla base dei cambiamenti intervenuti nel mercato. Fiducia infinita per il settore immobiliare e, a mio parere, ingiustificati entusiasmi. Un piccolo aumento del valore immobiliare non significa ripresa; se gli appartamenti continueranno ad essere così cari, le giovani coppie, già precarie, non potranno mai permettersi un mutuo e un’abitazione. Il mercato immobiliare, quello privato perlomeno, tornerà a crescere solo quando il valore degli immobili residenziali scenderà al livello della capacità di spesa della media delle persone. Russi, cinesi e arabi, con i miliardi di petroldollari che hanno accantonato grazie alla vendita di idrocarburi, diamanti e oro, attraverso l’uso di fondi privati o sovrani, comprano tutto (interi palazzi nei centri storici di Venezia, Roma e Milano, ma anche terreni e grandi fabbricati industriali in zone strategiche). Ma questa non è crescita economica, al massimo, speculazione e arricchimento per pochissimi fortunati. Il settore immobiliare e più in generale l’economia di mercato, funzionano solo se un numero sempre crescente di persone possono spendere e acquistare.

Perché dunque, l’economia italiana (e occidentale), non cresce da 20 anni?
Partiamo dal presupposto che la crescita infinita tanto nelle attività umane quanto in natura, per definizione, non esiste. Tutto è scandito da cicli che hanno un inizio e una fine, ogni cosa si esaurisce attraverso fasi di crescita e decrescita. Stesso vale in campo aziendale con la differenza però che, nei casi più virtuosi, possono avvenire trasformazioni, riconfigurazioni o riallocazione di capitale che generano nuova ricchezza. Per dirla secondo Darwin, sopravvive non il più forte, ma quello più capace di adattarsi. Da un veloce sguardo sul mondo, ci accorgiamo che l’economia Usa è sempre nelle prime posizioni – nel bene o nel male, gli Stati Uniti sono il motore della crescita mondiale tra il 2005 ed il 2015, però, circa 2/3 della crescita nominale del Pil sono arrivati dai Paesi Emergenti in particolare, la Cina ha dato un mostruoso impulso al Pil globale  nel corso degli ultimi 30 anni.

L’aumento del prezzo del petrolio
ha più che quadruplicato la contribuzione alla crescita economica della Russia e dei Paesi del Medio Oriente. il Sudamerica ha invece sofferto la crisi dell’Argentina, e l’Europa, da tempo sostenuta da politiche monetarie iper-espansive la cui sostenibilità è dubbia, sembra arenata nella parte bassa della classifica. Tuttavia è ormai chiaro alle economie occidentali che il principio capitalista fondato sulla crescita illimitata, detto altrimenti «processo di accumulazione continua di ricchezza», ha esaurito la sua spinta propulsiva. Infatti, al netto delle guerre, dei processi migratori, delle burocrazie e delle legislazioni statali e sovranazionali, il problema più grande dell’economia mondiale (occidentale) è la stagnazione di mercato (mancata crescita o crescita bassissima), imputabile al surplus produttivo. Ed è chiaro che se la capacità produttiva delle aziende, supera di gran lunga la domanda effettiva di merci e servizi, si creano più di un problema.

Prima di tutto di tipo finanziario: (liquidità) essendo l’80% circa degli investimenti fatti a debito, in una economia ferma, l’azienda non restituisce il capitale ricevuto e la banca va anch’essa in difficoltà, con le ripercussioni che abbiamo imparato a conoscere in questi anni; ovvero poco credito disponibile e a condizioni non vantaggiose. Poi di processo aziendale: si abbassano i prezzi di vendita ad un livello non sostenibile, i magazzini si riempiono di merce invenduta, i fornitori non vengono pagati. E infine, occupazionale: a causa del calo di fatturato o del margine di guadagno, comincia la cassa integrazione, poi la mobilità e infine il licenziamento.

Il miracolo del terziario avanzato costituito dai servizi a privati e aziende, che avrebbe caratterizzato l’era post-industriale, non si è compiuto. Infatti, nonostante livelli di crescita eccezionali, l’interno settore non riesce a controbilanciare in termini di valore e occupazione, il calo del manifatturiero. I fattori congiunturali sono determinanti e in paese come l’ Italia, caratterizzata da un tessuto produttivo costituito al 90% da piccole e media imprese, la situazione appare più compromessa che in altri paesi. La stagnazione tuttavia, riguarda l’intera economia di Stati Uniti e Europa, e le risposte politiche, al di qua e al di là dell’Atlantico, sono state insufficienti sia in termini di sostegno che di protezione.
Gli stessi monopoli, le grandi multinazionali, in ragione dei mostruosi costi di gestione, sono in grande affanno. L’atteggiamento aggressivo delle economie asiatiche, e il probabile riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato, peggioreranno la situazione. Le piccole imprese, anche quelle che esportano, dovranno allora farsi grandi attraverso forme di aggregazione. Diversamente, sostiene qualcuno in modo provocatorio, essendo molte di queste aziende destinate ad una lenta agonia e di ostacolo a comportamenti più virtuosi, andrebbero liquidate coattivamente, consentendo, a chi è più capace di tali adattamenti imprenditoriali, di tornare a produrre e generare nuovo valore sostenibile.
Il mercato dev’essere libero e aperto a tutti, ma le aziende che vi operano, non possono essere libere di fare danni. La concorrenza può essere un elemento di crescita nelle economie in via di sviluppo, ma in quelle mature, crea solo distruzione ed è probabilmente anche peggiore del monopolio. In realtà per fortuna, da più di un decennio ormai, almeno i marchi più noti, le principali realtà dei settori di abbigliamento, arredo-design, metalmeccanico, automobilistico, alimentare, chimico-farmaceutico, bancario e finanziario, hanno avviato questi processi generando partnership, fusioni, o aumenti di capitale attraverso l’ingresso di nuovi soci. Ricordiamo le recenti fusioni nel campo editoriale tra il giornale La Stampa e Repubblica, quella nel settore bancario tra Banco Popolare e Banca popolare di Milano, e la fusione tra Borsa di Londra e Borsa di Francoforte. Menzione a parte meritano le aziende che anche in tempi di crisi, vanno meglio. Sono generalmente quelle dei settori tradizionali con una quota di export superiore al 60% e quelli ad alto contenuto di ricerca e innovazione tecnologica: settore informatico, comunicazione, digitale, telematico, settore delle biotecnologie, farmaceutico, settore militare-difesa e servizi complessi alla persona.

I maggiori economisti al mondo
ormai concordano sul fatto che in Occidente potrà esserci nuova ‘vera’ crescita, solo attraverso l’apertura di nuovi mercati, nei paesi sottosviluppati del pianeta. Cosi, come gli Stati Uniti dopo la crisi del 1929 diedero rilancio agli investimenti e all’industria – sia attraverso fusioni verticali ed orizzontali, sia trovando nell’Europa un nuovo mercato preferenziale per le proprie merci – anche noi oggi, dovremmo essere abili a sviluppare aggregazioni tra imprese e creare, nei paesi sottosviluppati di Africa, Asia e America Latina, le condizioni necessarie affinché nascano nuove aree di mercato verso cui dirigere i nostri prodotti. Considerata la mentalità imprenditoriale (soprattutto italiana) ancora molto individualista e condizionata dalla cultura del sospetto, tenuto conto che ancora oggi, ad esempio, il 70% della popolazione subsahariana non ha accesso all’energia elettrica, il lavoro sarà lungo e arduo.

Alfredo Nepa, componente del Consiglio direttivo dei G.i. di Confindustria Abruzzo

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