Guida Pratica | Affresco-Conservazione

Puliture sugli affreschi di Luca Cambiaso

Le superfici dipinte da Luca Cambiaso (metà del XV secolo) nel Palazzo Meridiana a Genova sono state oggetto di restauro. Obiettivo dell’intervento è stata la conservazione della pellicola pittorica, che ha comportato la pulitura delle superfici e il consolidamento di due grosse fessure trasversali e di altre a queste collegate.

L’intervento ha riguardato la volta del salone principale del primo piano nobile. La tecnica di Luca Cambiaso è stata: stesura a fresco nella parte centrale della volta (sono visibili le giornate) e nelle lunette (in questo caso non ci sono giornate perché la superficie è di dimensioni ridotte);stesura a secco per le lumeggiature, le ombre, i dettagli e le campiture verdi e blu.

La metodologia impiegata ha cercato di ridurre al minimo la penetrazione dei solventi all’interno dei materiali agendo sugli strati di deposito senza la rimozione di nessun altro degli strati presenti.

Sono visibili su buona parte della superficie interventi successivi (probabilmente del XIX secolo) per ravvivare il colore (strati trasparenti). Sono stati rilevati anche interventi del Coppedè (inizio Novecento) su cromia, stucchi, ritocchi localizzati con probabile applicazione di protettivo. Obiettivo dell’intervento di restauro è stata la conservazione della pellicola pittorica, che ha comportato la pulitura delle superfici e il consolidamento di due grosse fessure trasversali e di altre a queste collegate.

Problematiche riscontrate

Lo stato conservativo generale dei dipinti murali e delle decorazioni a stucco era in parte compromesso da cedimenti strutturali e da diffuse infiltrazioni d’acqua. Un consistente deposito superficiale di nerofumo e polveri si accompagnava a localizzati fenomeni di sollevamento della pellicola pittorica e di craquelure diffusa. In generale la decorazione, in parte a fresco e in parte a tempera, risultava offuscata dalla presenza di materiali estranei che ne alteravano i valori cromatici:

  • depositi di polvere e patina giallastra di notevole spessore (fino a 1 mm nelle righe delle pennellate) nelle lunette;
  • erano presenti patine sottili sulle unghie e nella parte centrale della volta a padiglione.

Analisi eseguite

Nelle lunette si poneva con evidenza il problema della presenza di uno strato trasparente (fissativo?). Per sapere come intervenire su questo era indispensabile conoscere la tecnica pittorica utilizzata, la possibile successione temporale degli strati e avere conferma se alcune delle parti, evidentemente a secco, fossero contemporanee o meno alla realizzazione cinquecentesca (a fresco, con lumeggiature a secco).

La presenza di polveri inglobate nella vernice testimoniava che vi fosse stata almeno una ripresa successiva su superfici non pulite (ripresa ottocentesca o forse attribuibile all’intervento del Coppedè), usata per consolidare e rendere più brillanti gli affreschi. Al tatto la superficie della pellicola pittorica era grassa e al contatto con l’acqua non si bagnava.

Questi trattamenti avevano saturato la superficie tanto da appiattire le pennellate corpose, i graffi e tutti i segni caratteristici della tecnica pittorica ad affresco del Cambiaso.

L’analisi condotta sul fissativo tramite pirolisi accoppiata all’ascromatografia e alla spettrometria di massa (Py-Gc-Ms) ha poi rilevato la presenza di acidi grassi tipici di materiali lipidici come l’uovo (questo strato è molto ben adeso al supporto e inscindibilmente legato a polveri scure).

Da questi dati si è dedotto che lo strato in questione era un trattamento posteriore all’intervento del Cambiaso (l’uovo si utilizzava come fissativo nell’Ottocento) e quindi, come tale, lo si è rimosso. Conoscerne esattamente la composizione ha aiutato anche a mettere a punto la tecnica più opportuna per la sua eliminazione.

Lo stato conservativo generale dei dipinti murali e delle decorazioni a stucco era in parte compromesso da cedimenti strutturali e da diffuse infiltrazioni d’acqua.

Soluzione operativa

La superficie presentava molti altri segni importanti per la comprensione delle tecniche, quali un completo quadro delle incisioni preparatorie, delle quadrettature, di parti visibili delle sinopie, di pentimenti e variazioni.

A ciò si deve aggiungere la comprensione di segni inizialmente muti come i segni degli appoggi dei pennelli, tracce che nel progetto di restauro si è deciso che dovessero essere conservate.

Il primo problema era l’eliminazione del deposito di polveri e nero fumo, direttamente legato allo strato trasparente per rendere più leggibile la decorazione. Se necessario, per ottenere questo obiettivo, si sarebbe tolto anche lo strato trasparente. Si è comunque cercato di minimizzare gli interventi di rimozione.

La scelta di cosa pulire e di quanto pulire era evidente e pressante: togliere lo strato trasparente avrebbe potuto significare, con la perdita di uno strato, l’indebolimento della superficie dipinta.

Si trattava di agire in modo selettivo e per gradi successivi, utilizzando supportanti che dessero la possibilità di controllare il livello di pulitura e solventi differenziati a seconda dei materiali da rimuovere e del supporto dipinto.

Si è optato per una metodologia che cercasse di ridurre al minimo la penetrazione dei solventi all’interno dei materiali agendo sugli strati di deposito senza la rimozione di nessun altro degli strati presenti.

Per le parti a secco che presentavano sollevamenti di pellicola pittorica si è intervenuto prima con un preconsolidamento con resina acrilica in emulsione acquosa (con iniezioni puntuali fatte scaglia a scaglia oppure, per sollevamenti di piccola entità e diffusi, applicate con carta giapponese).

Mentre per alcune parti a secco più facilmente aggredibili dalla pulitura, come per esempio le scanalature delle colonne dell’affresco centrale è stato necessario intervenire con un preconsolidamento con Paraloid steso a pennello, di modo che potesse essere rimosso una volta terminata la pulitura. Prove di pulitura sono state fatte nelle lunette (principalmente nelle parti a fresco) perché qui il deposito era più consistente.

A seguito dei risultati delle analisi sono stati individuati tre tipi diversi di pulitura: pulitura dei depositi superficiali sovrapposti allo strato trasparente, rimozione dello strato trasparente (il fissativo) e successiva pulitura della superficie pittorica.

La prima fase di pulitura non comportava grossi problemi perché si trattava di depositi sovrapposti al fissativo. Il problema era solubilizzare il fissativo, per rimuoverlo sono state fatte prove di pulitura mirate.

  1. Dimetilsolfossido + butile Acetato in rapporto di peso 10:1 supportante carta giapponese. Risultato: lo strato di uovo non veniva completamente ammorbidito ed eliminato dalla superficie (solubilizzato).
  2. Acetone20%+Etile Acetato 50%+Citrosolv30% supportante carta giapponese: questa ricetta sostituisce il cloruro di metile più tossico e serve per sgrassare la superficie per permettere poi al solvente di poter agire. Risultato: eliminava il primo strato di deposito, ma non riusciva a solubilizzare il fissativo.
  3. Butile Acetato70%+Citrosolv30% supportante carta giapponese: per sostituire il cloroformio e la trielina anche questi tossici. Risultato: a seguito di tre passaggi successivi riusciva a solubilizzare abbastanza bene il fissativo, la superficie risultava pulita e i colori non alterati, ma il procedimento, simile a quello che si adotta per le tavole, era troppo oneroso rispetto al tempo impiegato quindi le prove sono proseguite adoperando altri solventi.
  4. Impacchi di carbonato d’ammonio in soluzione satura utilizzando come supportante la polpa di carta, applicato con interposizione di carta giapponese. Tempi di applicazione utilizzati: 10 min e 20 min. Risultato: tolto l’impacco la pulitura era disomogenea la patina risultava alleggerita ma non completamente eliminata.
  5. Impacchi con Ab57 utilizzando come supportanti carta giapponese e metil-cellulosa, che manteneva l’impacco bagnato per un tempo più lungo ma con la possibilità che le fibre entrassero nelle microfessure della craquelure con il rischio di non poterla rimuovere. Risultato: il fissativo veniva alleggerito ma non solubilizzato.
  6. In considerazione delle prove effettuate e dei risultati ottenuti si sono eseguite prove con i materiali che avevano dato risultati migliori ma utilizzando come variabile in più il calore. Si è quindi proceduto con una prova a impacco di Ab57 tiepido su carta giapponese e risciacquato con acqua demineralizzata calda osservando che il calore produceva buoni risultati per il risciacquo del solvente è stato utilizzato il vapore. È stato poi sostituito il primo passaggio di pulitura dei depositi superficiali, fino a ora effettuato con vari passaggi di carbonato d’ammonio al 7% sciacquando la superficie con acqua demineralizzata, mediante vapore.
Si è agito in modo selettivo e per gradi successivi, utilizzando supportanti che dessero la possibilità di controllare il livello di pulitura e solventi differenziati a seconda dei materiali da rimuovere e del supporto dipinto.

Il metodo utilizzato

Rimozione depositi superficiali:

  • primo risciacquo con vapore per togliere i depositi superficiali di polvere,
  • pulitura sommaria della superficie, per permettere al solvente (quello che si usa nel secondo passaggio) di agire in maniera più efficace e senza avere polveri inglobate;
  • le successive fasi sono quindi state differenziate a seconda dell’area di intervento.

Accorgimenti da adottare

Ogni figura e ogni colore della volta è stata scontornata perché le diverse sezioni reagivano in modo differente richiedendo un costante controllo da parte dell’operatore, tempi di applicazione e fasi di pulitura sono stati calcolati di volta in volta. Sulla porzione di superficie da pulire, si stende quindi con un pennello bagnato in acqua deionizzata o in acqua satura di carbonato d’ammonio, un foglio di carta giapponese.

La carta giapponese, oltre a servire da filtro interposto tra il reagente e il supporto da trattare, evita il contatto diretto tra la pasta di cellulosa e la superficie stessa, contatto che potrebbe causare, sia nella fase di applicazione dell’impacco sia in quella della rimozione, danni meccanici al manufatto.

In seguito si applica l’impacco stendendolo con le mani; si parte dall’alto vero il basso ed è necessario fare molta attenzione che l’impacco aderisca bene alla superficie e che non vi siano dei vuoti d’aria. In caso contrario si potrebbero notare zone più scure, dovute a una disomogenea pulitura della superficie.

I tempi di applicazione degli impacchi variano sensibilmente da caso a caso; a volte sono necessari tempi minimi soprattutto nel caso di affreschi in cui vi siano dei ritocchi a secco, leganti organici e colori scuri; a volte è necessario tenere in posa l’impacco anche per 24 ore. Rimosso l’impacco la superficie deve essere lavata; in alcuni casi questo lavaggio deve essere eseguito solo il giorno dopo la rimozione dell’impacco.

Sulla porzione di superficie da pulire, si stende con un pennello bagnato in acqua deionizzata o in acqua satura di carbonato d’ammonio, un foglio di carta giapponese.

Riflessioni a margine dell’esperienza di cantiere

L’esperienza descritta mostra quanto un restauro attento e oculato sappia distinguere i casi in cui può essere necessario compiere puliture differenti: spesso la differenza consiste in una vera e propria tecnica diversa, ma, in alcuni casi, anche un dosaggio diverso, una tempistica differente può incidere profondamente sui risultati.

Il carbonato d’ammonio è uno dei solventi di più largo impiego nella pulitura delle pitture murali o, in generale, di materiali lapidei di natura calcarea. Solitamente è applicato a impacco, utilizzando come supportante la polpa di cellulosa, la sepiolite (argilla) o la silice micronizzata (silice precipitata: polvere finissima che stemperata nel solvente forma una miscela facilmente applicabile).

Il carbonato esercita un’efficace azione desolfatante e consolidante, soprattutto se associato all’idrossido di bario ed è un solvente reattivo, cioè capace di portare in soluzione la sostanza da rimuovere, per effetto di una reazione chimica; la sua azione, infatti consiste nell’ammorbidire e rigonfiare la sostanza da eliminare, in modo tale da differenziarla e staccarla dal supporto cui è ancorata, limitando così il ricorso a tecniche di asportazione meccanica, generalmente più invasive e rischiose per i manufatti.

Nel caso descritto emerge anche quanto sia necessario interrogarsi su ciò che si vuole rimuovere e su ciò che, invece, si vuole mantenere anche se a livello di semplice segno (come le tracce di appoggio dei pennelli).

Glossario

Il dimetilsolfossido (Dmso): noto anche come metilsolfossido o sulfinilbis (metano), è un composto organico appartenente alla categoria dei solfossidi. A temperatura ambiente si presenta come un liquido incolore e inodore particolarmente igroscopico. Sebbene nella sua forma pura sia effettivamente privo di odore. Il dimetilsolfossido è un sotto-prodotto della lavorazione della carta, frequentemente usato come solvente in chimica organica: L’acetato di n-butile è un estere dell’acido acetico e dell’1-butanolo. A temperatura ambiente si presenta come un liquido incolore dall’odore fruttato.

Citrosolv sinonimi Orange – D-Limonene-Terpene Arancio: grassante per operazioni di pulitura. Solvente totalmente naturale di origine vegetale (estratto di agrumi), polifunzionale e polivalente, dal gradevole odore di arancio utilizzabile in sostituzione di solventi più aggressivi.

Carbonato d’ammonio: è uno dei solventi di più largo impiego nella pulitura delle pitture murali e in generale dei materiali lapidei di natura calcarea.

AB57: l’impacco con AB57 nella formulazione data dall’Icr (Istituto Centrale del Restauro di Roma) è la seguente: 1000 cc di acqua distillata, 30 gr di bicarbonato d’ammonio, 50 gr Bicarbonato di sodio, 25 gr di Edta (sale bisodico dell’acido etilendiammino-tetraedico), 10 cc di neo Desogen (biocida), carbossimetilcellulosa. Con questa formulazione si ottiene un composto leggermente basico con Ph intorno a 7,5. Il principio di funzionamento dell’AB57 è il seguente: il bicarbonato d’ammonio svolge un’azione meccanica d’infragilimento della crosta nera, mentre l’Edta agisce sul calcio della crosta nera che viene portato in soluzione e assorbito dal supportante; nello stesso tempo lo ione solfato della crosta si lega allo ione sodio che era presente nell’Edta, prima di essere sostituito dallo Ione calcio. Il solfato di sodio così formatosi, anch’esso molto solubile nell’acqua di impasto, è facilmente aggregabile all’interno del supportante.

di Lorenza Comino, architetto, specialista in restauro dei monumenti e 
Daniela Pittaluga, Dad–Università di Genova

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