Riprendiamo il discorso sul futuro dell’associazionismo professionale nell’Italia degli anni ‘10.
Finita l’era delle ideologie e raggiunti livelli di welfare che apparivano ormai assicurati per sempre dalla società dello sviluppo senza limiti, già da tempo s’erano affievolite le ragioni della «militanza» sindacale presso le associazioni di rappresentanza, con la conseguente crisi di partecipazione e riduzione delle adesioni, sia di datori di lavoro, sia di lavoratori dipendenti.
In questo scenario è interessante proprio il caso dei professionisti, che nel medesimo periodo hanno subito, in controtendenza, una serie di provvedimenti punitivi: riduzione delle competenze riservate e dei livelli e della certezza della remunerazione, a fronte dell’attribuzione di oneri e responsabilità di natura pubblicistica, non coperti da corrispettivo. Tuttavia, i professionisti non hanno fatto eccezione nel manifestare disaffezione verso il proprio sistema associativo e non hanno colto la necessità di rimanere uniti e anzi d’incrementare lo spirito unionistico, per dare forza a una rappresentanza d’interessi idonea a quell’autodifesa che appare tuttora indispensabile. Così anche i professionisti hanno partecipato al clima di sfiducia verso le ormai centenarie formule di partecipazione incentrate sulle deleghe e sui riti elettorali (dal Parlamento agli ordini professionali) che s’è radicato nel Paese.
I sociologi e gli economisti hanno incluso tale fenomeno nei processi di «disintermediazione», che sostanzialmente consistono nel ritiro di ogni delega e nella soppressione di determinati livelli di rappresentanza, per privilegiare rapporti diretti tra il cittadino e le autorità, mediante raggruppamenti spontanei, temporanei e flessibili. Beninteso, in nessun Paese democratico si è sperimentata con successo una formula alternativa alla democrazia rappresentativa e alle sue derivazioni, ma l’opinione pubblica è delusa in una misura che sembra per ora definitiva e così sottovaluta il ruolo di garanzia che il parlamentarismo ha saputo rappresentare, pur nella sua palese imperfezione e lentezza.
I fattori scatenanti, che hanno messo in luce l’inadeguatezza delle formule tradizionali, sono stati ovviamente soprattutto internet e i social network, dove maggioranze e decisioni maturano invece in tempi brevissimi.
Il tema è ora di tentare di configurare quali modalità d’adesione potranno assicurare la partecipazione dei singoli portatori degli interessi minuti e diffusi ai temi generali, in misura sufficiente per attribuire l’indispensabile rappresentatività e autorevolezza alle associazioni.
È evidente che i tesseramenti appartengono ormai al passato e sono ancora calanti, mentre sul web singoli argomenti, iniziative, slogan, campagne, sfoghi più o meno razionali sono invece capaci di coagulare l’attenzione e l’adesione di numeri imponenti di «naviganti virtuali», che s’aggregano magari soltanto su uno specifico tema per poi allontanarsene velocemente, per formare altri gruppi e altre maggioranze. Questa volatilità non è evidentemente idonea ad attribuire le deleghe indispensabili per accreditare le associazioni e dar forza ai loro obiettivi, anche se bisogna dire che lo stesso mondo della politica, che forma gli organismi di Governo ai diversi livelli e interloquisce con le associazioni di rappresentanza, appare e trasmette diffusamente in rete con i medesimi mezzi.
Poiché peraltro interessi da rappresentare e diritti da salvaguardare permangono, si tratta allora di riuscire ad aggregare il consenso on-line su temi meno episodici ed estemporanei. Per raggiungere questo traguardo, a nostro avviso è necessario presentare adeguatamente sul web programmi di politica professionale completi e articolati, ma anche flessibili e in costante aggiornamento e aprire discussioni per raccogliere contributi d’idee e coagulare il consenso.
Ma esiste la possibilità di farsi comprendere dalla variegata platea dei possibili destinatari dei messaggi? Per intenderci, a chi interessa difendere in modo ecumenico gli interessi generali (dei liberi professionisti piuttosto che degli imprenditori in quanto tali) come si faceva negli anni ottanta? Oppure è necessario rivolgersi direttamente alle singole professioni? Oppure ancora, come nel caso degli architetti e degli ingegneri, è necessario dare risposte precise ai singoli segmenti che compongono l’insieme degli iscritti agli albi di ciascuna professione, in realtà costituita da gruppi a volte contrapposti tra loro: liberi professionisti titolari di studi, professionisti consulenti, partite Iva, giovani all’inizio della carriera, pensionati, insegnanti, dipendenti pubblici, dipendenti privati?
È una domanda che mette in discussione la formula stessa delle confederazioni e delle associazioni che promuovono politiche d’interessi mediati, che, essendo troppo larghi, finiscono per non aderire a nessuna delle istanze fondamentali.
È un oggetto che svilupperemo in un prossimo articolo, con specifico riferimento alle professioni del progetto.
Bruno Gabbiani, presidente Ala Assoarchitetti