Mostra | Triennale di Milano

Senza pericolo! Costruzioni e sicurezza

Dal 3 maggio al 3 settembre alla Triennale di Milano si tiene la mostra «Senza pericolo! Costruzioni e sicurezza». Curata da Federico Bucci, la mostra è suddivisa in 9 sezioni che guidano a una lettura positiva del termine «sicurezza». In primo piano il tema della responsabilità civile dell'architetto, e di tutti i progettisti, di fronte alla società.

Il percorso della mostra «Senza Pericolo è svolto attraverso una serie di approfondimenti dedicati alle relazioni tra il mondo delle costruzioni e i problemi della sicurezza. Dagli oggetti usati per proteggere il corpo nelle attività produttive, alla casa come condizione primaria della sicurezza sociale; dagli spazi del lavoro (a partire dal cantiere), agli impianti che, sottoterra e dentro i muri, garantiscono il funzionamento dei servizi tecnici; dalle innumerevoli volte in cui l’umanità si è trovata a ricostruire la propria storia dopo aver subito una distruzione (non solo, ovviamente, per le catastrofi naturali), alle condizioni di un’architettura che oggi, sempre più sorvegliata da telecamere, non distingue i confini tra safety e security. Questi sono i percorsi di ricerca proposti, articolati in 9 sezioni e guidati da una versione positiva del termine sicurezza, con l’obiettivo «d’interpretare il passato per progettare il futuro su una Terra che dev’essere curata molto bene per viverci senza preoccupazioni».
Sezione 1
Dispositivi di protezione individuale (a cura di Davide Crippa e Barbara di Prete). L’abbigliamento antinfortunistico deve essere confortevole, pratico e di facile manutenzione, ma non per questo sfugge alle più sofisticate interpretazioni che da sempre accompagnano l’oggetto-vestito. Superando la triplice categoria di protezione, pudore e ornamento, ora anche queste “protesi” per la sicurezza del corpo si prestano a letture più articolate: dalle più tradizionali calzature antinfortunistiche ai guanti e agli occhiali protettivi, dalle cuffie antirumore alle maschere a pieno facciale, dai caschi da cantiere alle lampade dei minatori, i modelli esposti evocano un carattere quasi alieno, che appare ancora più affascinante quando si entra nel merito delle loro specifiche tecniche e prestazionali, ma non mancano rivisitazioni di questi elementi archetipici della sicurezza alla luce di istanze tipicamente cittadine.
Sezione 2
Quartiere residenziale: Ivrea 1950-Amsterdam 2013 (a cura di Dario Costi con Stefano Negri). Se la prima condizione di sicurezza è avere un tetto sotto cui rifugiarsi, la seconda, appena dopo e come suo compimento è che quel tetto sia parte di un insieme significante e integrato di altri tetti. Affrontare il tema del rapporto tra architettura e welfare può significare, allora, evidenziare alcuni tentativi che siano riusciti o abbiano provato ad affiancare al soddisfacimento del diritto alla casa il raggiungimento, ancor più difficile, del diritto alla città. Di fronte all’espansione urbana indifferenziata ed impersonale sempre più diffusa a livello globale, la lezione della convivenza delle forme e delle attività della città europea rivive, nel passato recente, nell’Ivrea degli anni Cinquanta dove il “pubblico” della stagione Ina-Casa ed il “privato” della Company town italiana Olivetti si sovrappongono nel segno del lavoro di Marcello Nizzoli e, ad oggi, nell’Olanda contemporanea dove l’esperienza sul social housing di Dick van Gameren tra l’insegnamento a Delft, l’impegno nella rivista Dash ed il lavoro progettuale può essere assunta come espressione della visione strategica di un sistema basato esclusivamente su finanziamenti privati che diviene esempio per l’Europa (il social housing rappresenta il 32% del patrimonio immobiliare nazionale e gli obiettivi raggiunti sono dieci volte quelli dell’Italia con 155 alloggi ogni 1000 persone contro i nostri 15). L’esperienza olandese, che l’architetto interpreta, rappresenta così una strada praticabile anche per l’Italia, per reinventare la stagione lontana ed effimera qui documentata in una impostazione all’opposto permanente, basata sulla suddivisione dei compiti tra “pubblico” e “privato” e sulla definizione di obiettivi comuni tra politiche e progetti per la casa e per città.
Sezione 3
Catastrofi e ricostruzioni (a cura di Massimo Ferrari). Catastrofi e ricostruzioni, rovine e nuove città si confrontano come le parole di un unico racconto in una sequenza ordinata di immagini che a partire dalla successione proposta, stabilisce una gerarchia, un taglio critico al quale guardare. Terremoti, frane, inondazioni, incendi, guerre sono alcuni tra i disastri che hanno segnato l’identità delle nostre città, sono le circostanze fatali di una storia intrecciata indissolubilmente al progresso non condizionato dalle emergenze. Nessuna celebrazione del male è sottesa all’attenzione dimostrata per il dramma, se non nel rapporto con l’architettura che lo accompagna, che cerca di anticiparlo, che oggi ne studia cause e conseguenze per superare il pericolo.
Il percorso è un confronto tra i paesaggi emotivi e nuove architetture che ricompongono l’immagine di molte città; all’arte la capacità di evocare in modo sintetico sentimenti altrimenti inesprimibili, all’architettura la stabilità di nuove rinascite.
Lo spirito necessario per guardare le immagini delle catastrofi è quello di riuscire ad prevedere la forza della ricostruzione, che si può comprendere solo a posteriori in una prospettiva temporale caricata, nel corso della storia, del ruolo di guida verso una situazione di calma sicura per la società. Architetti e ingegneri, hanno costruito e ricostruito tenacemente le nostre città da San Francisco a Messina, da Lisbona a Berlino, fino alle recenti città cilene; contemporanei o passati questi progetti esemplari sono mostrati come possibili modi di agire di fronte ai disastri con un atteggiamento sempre positivo, spesso nuovo, comunque moderno.
sezione 4
Macchine invisibili: la sicurezza nascosta (a cura di Luigi Spinelli, con Federica Pugliese). L’architettura sotterranea ci parla di sicurezza e rifugio dai pericoli, ma anche di disorientamento e isolamento dal contesto: ricadute psicologiche ben rappresentate negli spazi piranesiani delle Carceri d’invenzione, così simili alle inedite sperimentazioni di Pier Luigi Nervi sul calcestruzzo armato. Gli spazi legati alla protezione bellica propongono i temi dell’occultamento e della dislocazione: una condizione recentemente riscattata dalla riqualificazione di un ricovero di sommergibili a Saint-Nazaire in spazi culturali ad opera dello studio Lin Architects.
La ricerca verso l’alto delle garanzie di aria e luce fa muovere l’architettura dentro il suolo, mostrando in superficie solo piccoli segnali.
I luoghi interrati del lavoro e dell’energia inaugurano un paesaggio tecnologico dove il tema della sicurezza ne riscatta il ruolo al servizio degli spazi superiori di rappresentanza. La sede della Montecatini di Milano trova negli impianti sotterranei un esempio di avanguardia tecnica ed espressiva, sintetizzata simbolicamente dall’intreccio dei tubi colorati della centrale di posta pneumatica, che Gio Ponti vuole visibili e visitabili, così come i sotterranei della Torre Pirelli, descritti orgogliosamente come “il mio Léger”. Dopo l’introduzione del cemento armato nel processo industriale dell’edilizia e l’immediata costruzione di un’estetica da parte del Movimento Moderno, oggi la sicurezza si gioca all’interno delle fondazioni, delle pareti e dei solai, lungo le reti degli impianti, percepita e controllata in superficie da un abaco variegato di dispositivi.
Sezione 5
Workplaces: la macchina nella macchina (di Elisa Boeri). “E ho visto infatti grandi costruzioni massicce e vetrate, in cui si vedevano degli uomini muoversi, ma muoversi appena, come se si dibattessero solo debolmente contro un non so che d’impossibile”. Così scrive nel 1932 Louis-Ferdinand Céline, nel romanzo Viaggio al termine della notte, descrivendo le fabbriche della Ford a Detroit.
Nel corso del ‘900 gli spazi del lavoro, del cantiere e dell’ufficio hanno subito grandi trasformazioni, in relazione ai mutamenti in atto nell’organizzazione “scientifica” del lavoro. Ripercorrere questi anni, attraverso un lungo filo conduttore che parte dalle fabbriche dei primi del secolo, investite dalla “rivoluzione taylorista e fordista”, è un utile esercizio per indagare con occhio critico quanto è stato fatto fino ad oggi nel campo della sicurezza sul lavoro e come sono modificati gli ambienti di vita dei lavoratori.
Sopra questa cronologia, si pongono quei progetti di fabbriche che architetti e ingegneri di tutto il mondo hanno sperimentato nel corso del Novecento: dagli hangar in cemento armato che Auguste Perret realizza alla fine degli anni Dieci, all’estetica della “macchina perfetta” dello stabilimento Van Nelle capace, nelle parole di Le Corbusier, di riscattare la parola “proletario” illuminando lo “spirito dei lavoratori”.
Ed è proprio Le Corbusier a proporre, nel 1944, il “sogno” della sua Usine Verte, ovvero, la “macchina nel giardino”; mentre nel dopoguerra l’industriale Adriano Olivetti porta a compimento, a partire dalla “comunità” di Ivrea, quell’intreccio tra architettura, industria e paesaggio interpretato da numerosi progettisti, tra cui Luigi Figini e Gino Pollini, Ignazio Gardella, Marco Zanuso, Eduardo Vittoria e Luigi Cosenza.
Tra i bozzetti pubblicitari di Marcello Nizzoli (1943) e l’occhio del fotografo Uliano Lucas che immortala la bonifica dalla diossina dopo il disastro di Seveso (1976), risiede lo scontro tra sogno utopico e realtà, a testimonianza del fatto che è ancora molta la strada da percorrere per garantire un mondo del lavoro “senza pericolo”.
sezione 6
Architettura e sorveglianza (a cura di Marco Biagi). Sicurezza come security e security come controllo. Dall’Illuminismo in poi, la modernità ha sviluppato una tecnica di potere fondata sulla “visibilità” quale strumento economico e incruento per reprimere e sedurre, condizionare le coscienze, disciplinare i comportamenti, plasmare individui utili, docili, organici agli imperativi categorici della nuova civiltà industriale, ovvero alla produzione, da un lato, e al consumo, dall’altro.
Lo ha fatto, per lungo tempo, avvalendosi dell’architettura, dell’ingegneria tipologica, dell’organizzazione razionale dello spazio, e continua a farlo oggi attraverso i potenti e pervasivi apparati tecnologici dell’elettronica e dell’informatica, che erodono, fino ad annullarli, i confini della privacy personale.
La figura chiave di questa “società del controllo” è rintracciabile, secondo Michel Foucault, nel dispositivo Panopticon messo a punto dal filosofo utilitarista inglese Jeremy Bentham alla fine del Settecento quale modello ideale di prigione, ma anche di ospedale, manicomio, ospizio, fabbrica, caserma, scuola, che nella geometria sperequativa di uno sguardo compiutamente accentrato realizzava il meccanismo della perfetta sorveglianza dei pochi sui molti.
Da qualche decennio, il panoptismo “spaziale” di Bentham è stato soppiantato da un Superpanopticon digitale di telecamere a circuito chiuso, carte di credito, bancomat, telefoni cellulari, sistemi di rilevamento satellitare, banche dati informatizzate, social network ecc., che ha esteso la sorveglianza su scala planetaria svincolandola di fatto da qualsiasi relazione con la forma degli edifici, delle città e del territorio. Lasciando sul campo il residuo di un’architettura espropriata delle sue antiche velleità riformatrici e “ortopediche”, smarrita nella crisi di una deriva esclusivamente estetica e mercantile.
Sezione 7
Una città sicura (a cura di Massimo Ferrari e Claudia Tinazzi – progetti di Alberto Ferlenga, Emanuele Fidone, Carlo Moccia, Paolo Zermani). Di fronte all’immagine del terremoto ognuno di noi ha pensato, immaginato a suo modo, la ricostruzione; provare oggi, a ricostruire città, piccoli centri urbani o grandi quartieri ci costringe a ricercare i valori più importanti, più generali, ancora attuali da confermare in una nuova idea fondativa. Ci obbliga a selezionare le qualità vissute nel passato, da eleggere come principi per il nuovo, ci costringe –ancora– a una presa di posizione capace di portare un contributo positivo alla realtà costruita, nel migliore dei casi per anticipare il pericolo stesso.
Abbiamo immaginato un contributo concreto al tema della ricostruzione dopo il terremoto, nello specifico caso della Pianura Padana del 2012, vicino a noi per cronologia, geografia, identità. Un progetto per mantenere viva la memoria, per avanzare la ricerca che da tempo studia il movimento della terra e quello che ne consegue, nessuna ipotesi provvisoria ma la ridefinizione di un nuovo centro da cui ripartire: una chiesa, un’aula civica, una scuola, le case. L’immagine idealizzata del paesaggio emiliano trascritto da Alfredo Casali – Io sono un racconto sospeso nel paesaggio, 2012 – e la ragione delle forme geometriche composte nella scultura n.23 di Fausto Melotti hanno guidato la nostra composizione dentro il vuoto silenzioso disegnato dal crollo degli edifici pubblici a Cavezzo. Il progetto è un brano di città sospeso tra il bisogno di innovazione e la memoria di ciò che era; nessuna ricercata originalità forzata dall’emozione dell’istante doloroso ma soluzioni tecniche concrete e stabili, con salde radici e uno spirito contemporaneo.
Il lavoro di quattro architetti italiani, Alberto Ferlenga, Emanuele Fidone, Carlo Moccia, Paolo Zermani, accomunati dalla profondità della ricerca riferita ai temi proposti, è stato composto in un nuovo impianto urbano che è memoria di ciò che quel luogo è stato, del terremoto che ne ha modificato irreparabilmente il profilo e della vita urbana che vorremmo si potesse riacquisire grazie all’architettura. Una città più sicura dove ricominciare a vivere Senza Pericolo!
sezione 8
Paesaggi della sicurezza (fotografie di Marco Introini). Marco Introini è il nostro “uomo con la macchina da presa”. Sempre in giro per il mondo, qualche volta si ferma, sceglie un punto di vista, sistema il suo cavalletto e attende pazientemente i passaggi della luce, per catturarli nella sua fotografia.
L’inquadratura è progettata in ogni dettaglio. Il fotografo usa la geometria con sapienza: sugli assi cartesiani dispone punti, linee e superfici. Lo spazio è pronto per accogliere le “forme del tempo”.
Abbiamo chiesto a Marco di interpretare liberamente il tema della mostra, laddove le “condizioni di sicurezza” si manifestano, in modo più o meno evidente, dagli spazi interni al territorio.
Il risultato, qui selezionato, è una galleria di ritratti fotografici dedicati a luoghi eterogenei, costruiti per proteggersi dai rischi di ogni tipo.
La realtà è testimoniata senza alterazioni: l’obiettivo fotografico è “naturale” come l’occhio del fotografo, ovvero, di chiunque sappia sostenere la fatica dello sguardo prolungato.
L’elegante e rigorosa astrazione del bianco e nero trasfigura una composita sequenza visiva che, in questo caso, dai sotterranei alle montagne, fin giù al mare, mostra ciò che l’homo faber ha prodotto per tentare di vivere “senza pericolo”.
Sezione 9
Men and women at work (a cura di Lucia Miodini). Donne, uomini, lavoratori, sono qui ritratti in una galleria fotografica firmata da grandi autori italiani, perché il tema della sicurezza sul lavoro ha sempre al primo posto le persone che “abitano” gli spazi. Il mito della tecnologia ha mutato l’immagine del corpo, regolatore culturale. Sono oggi le neuroscienze che assegnano un ruolo nuovo al corpo biologico, riducendo la complessità dell’essere umano. Ma anche quello biologico, come il corpo forza-lavoro,è un prodotto culturale. La nuova icona è il corpo tecnologico; l’ideale è, sottolinea Umberto Galimberti, il robot, modello perfetto e funzionale di forza-lavoro. Il mito della fabbrica senza uomini e donne è un luogo senza pericolo, che corrisponde, in questo caso, alla libertà di rottamare gli elementi che non funzionano più. L’impatto ambientale e il riuso delle aree dismesse è al centro della riflessione critica. Ma di contro alle innumerevoli immagini di fabbriche dismesse, cattedrali del XX secolo in rovina, ci sono luoghi invisibili, luoghi della delocalizzazione delle industrie, dove sopravvivono condizioni di salute che sono ormai inaccettabili per un Occidente “senza pericolo”.
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