Punti di Vista | Gianluca Frediani, professore in Composizione architettonica

Spirito e materia

A differenza delle recenti esperienze italiane, segnate dalle astratte interpretazioni liturgiche, gli edifici religiosi presentati in questa rapida revisione ci suggeriscono un'idea di spazio poetico che sorge dalle qualità intrinseche degli oggetti. Essenzialità è la parola chiave dello studio progettuale che fluttua tra spirito e materia cercando il senso del sacro.
Gianluca Frediani | Architetto, ha insegnato presso l’Università di Ferrara e la TU, Graz. È autore di articoli, saggi e contributi su diversi temi della progettazione architettonica e urbana. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Quote e orizzonti. Carlo Scarpa e i paesaggi veneti (Quodlibet, 2015), Carlo Scarpa. Gipsoteca canoviana a Possagno (Electa, 2016) e Armonia segreta. Carlo Scarpa e il progetto della forma (Quodlibet, 2019).

(Cil 173) È sempre difficile intervenire nel dibattito sull’architettura sacra contemporanea; lo farò partendo da quel che ci è vicino, a cominciare da alcune note sulle conseguenze della riforma avanzata dal Concilio Vaticano II.

Come è noto, le risoluzioni conciliari hanno non solo sancito una profonda trasformazione dell’architettura cattolica ma le hanno anche dischiuso nuove prospettive, scardinando la tradizionale liturgia con l’officiante unico a vantaggio di una visione assembleare più ampia e complessa. Questa complessità ha reso possibile ricerche progettuali differenziate i cui prodotti, però, non sono mai stati sistematicamente raccolti e analizzati.

Questo è, senza dubbio, un lavoro che manca, un compito ancora tutto da svolgere. I tanti rivoli che sono sgorgati dalla rottura della diga dogmatica provocata dal Concilio non hanno mancato di suscitare critiche che, oggi soprattutto, suonano anacronistiche e nostalgiche. Se accettiamo, infatti, che la società contemporanea è complessa e variegata, dobbiamo convenire che le forme del sacro, in qualsiasi modo le si voglia considerare, non possono che rispecchiare questa multiforme condizione d’incertezza e, insieme, di libertà espressiva. Ciò dovrebbe bastare a convincerci che il ritorno a tipologie prefissate non è in alcun modo immaginabile, o anche solo utile.

Ben venga la sperimentazione, dunque; anche se non si può fare a meno di registrare, soprattutto nelle esperienze italiane, come la tensione post-conciliare si sia prevalentemente incanalata nella crescente importanza attribuita ad astratte interpretazioni liturgiche (1) più che indirizzarsi verso esperienze veramente innovative.

Se, infatti, un problema di fondo è emerso nella progettazione delle chiese dell’ultima generazione (2), è stato proprio quello di aver sottomesso ogni considerazione architettonica (e artistica) a un’interpretazione liturgica, di volta in volta adattata e personalizzata, fino al punto d’imporre in partenza, ai gruppi di progettazione, la presenza di un liturgista come interprete del messaggio religioso.

Così, i concorsi italiani si sono andati quasi trasformando nella gara fra diverse visioni celebrative, invece di basarsi su un confronto aperto fra diverse idee di architettura. L’aver distolto l’attenzione dalla libera ricerca progettuale non mi sembra abbia prodotto risultati di un qualche valore mentre, al contrario, si è generato uno squilibrio che ha finito con l’imporre agli architetti, oltre ai molti vincoli esistenti, un ulteriore livello di difficoltà, caratterizzato dalla decodificazione di costrutti simbolici di non immediata o facile comprensione.

Uno spazio sacro dovrebbe avere, al contrario, una chiarezza comunicativa diretta, essere immediatamente decifrabile, perché niente, come l’architettura, possiede l’intrinseca capacità di esprimere in forme materiali la tensione spirituale umana e il suo sentimento religioso. Ecco perché capita che esperienze minori riescano più facilmente a centrare l’obiettivo rispetto alle realizzazioni nate da grandi programmi.

Bruder-Klaus- Feldkapelle di Peter Zumthor, Wachendorf 2007..

È il caso, per esempio, di un piccolo edificio come la mistica Bruder-Klaus-Feldkapelle di Peter Zumthor, che riesce a evocare, con la sua ruvida semplicità, il senso del sacro in maniera intima e potente. Nella Feldkapelle è la poesia della materia nuda, la drammaticità della luce a sostenere quella austerità formale che ci conduce, quasi per mano, fin sulla soglia del sacro.

Qualcosa di simile accade, sebbene per strada opposta, direi quasi per rarefazione, nella Cappella nel bosco (3) di Paolo Zermani, la cui naturale serenità nasce da un equilibrato insieme di segni minimali.

Mi si potrà obiettare, e con ogni ragione, che si tratta di edifici piccoli e isolati, quasi latenti, e comunque ben lontani dalla complessità di un centro storico o di una periferia urbana. Sia pure; il discorso non cambia anche se affrontiamo edifici con dimensioni maggiori e funzioni più articolate. Lo dimostra ampiamente la rassegna di progetti che questo numero (Cil 173) presenta, costituita da esempi provenienti da diverse aree del mondo.

Si tratta di edifici di dimensioni abbastanza contenute, che sorgono in contesti deboli o marginali. In essi il mattone ricopre naturalmente un ruolo decisivo, proponendosi come comun denominatore di ricerche che esaltano flessibilità strutturale e forza espressiva. Rudolf Schwarz sosteneva, a questo proposito, che «c’è un costruire che semplicemente è fedele alle cose e da loro ragione» (4).

Questo è il caso della chiesa cattolica di S. Giorgio, a Debrecen, che ci offre uno spazio liturgico chiaro ed efficace, segnato da filari sporgenti che richiudono una sorta di moderna tholos, scandita in altezza dalla crescente intensità dell’ombra.

Più direttamente connessi ad un ambiente naturale sono, invece, due esempi sudamericani: la monumentale cappella di S. Bernardo, a Córdoba, e la piccola cappella di Centinela, a Jalisco. La prima, immersa in una condizione di natura semi-selvaggia, protegge lo spazio sacro con un recinto ed è segnata da una possente geometria che la avvicina, per la presenza delle ampie arcate, ad alcuni esiti del lavoro di Louis Kahn.

La seconda, invece, è uno spazio ricavato da volumi elementari, che disegnano ampi riquadri per catturare gli elementi naturali, un brandello di cielo, una pozza d’acqua circondata da alberi. Un caso a parte costituisce la chiesa di Vilanova de la Barca, a Lleida, non solo perché sorge in un denso contesto urbano, ma soprattutto perché si confronta con il tema più generale della memoria, introducendo, con calcolata precisione, materiali e forme nuove a completamento di una rovina medioevale.

Infine, la piccola, ma delicata, moschea di Bait Ur Rouf, a Dhaka, che sperimenta un uso intenso e suggestivo della luce, nel rispetto della grande tradizione islamica. Lontani dalle mode del contemporaneo, questi edifici ci trasmettono, nel loro insieme, la testimonianza di una ricerca appassionata nel corpo vivo dell’architettura. Essi ci dimostrano come il vero materiale da costruzione sia lo spirito prima ancora che la materia, ma allo stesso modo che, senza una approfondita sperimentazione sulla seconda, il primo non può essere né intuito, né afferrato. Gratia supponit naturam.

di Gianluca Frediani, professore in Composizione architettonica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara
e presso l’Institut für Stadt- und Baugeschichte della Technische Universität Graz.

Note

  1. Fra i tanti contributi sul tema, vedi il recente intervento di G. Boselli, Non più chiese per la liturgia; chiese come liturgia, Il Giornale dell’Architettura 103 (2017) newsletter.
  2. Vedi l’iniziativa dei cosiddetti Percorsi diocesani, organizzata dalla Cei.
    3. Chiara Testoni, Paolo Zermani. Cappella nel bosco, Varano dei Marchesi, Parma, in ‘Costruire in laterizio’ n. 166 /marzo 2016, pp. 18-21.
  3. Debbo a Maria Schwarz questa citazione a memoria.

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