Produzione | Digitalizzazione

Tecniche innovative per la stampa 3D di manufatti in laterizio

Le tecniche di stampa 3D stanno emergendo fortemente anche nella produzione edilizia, con sperimentazioni interessanti sui laterizi e sulle ceramiche. Nel contributo si classificano i differenti metodi di stampa 3D con particolare riferimento a quelli utili ad essere impiegati nella filiera del laterizio. Si individuano inoltre due casi di studio relativi a tali materiali.

Cil 181 – Negli ultimi anni le macchine a controllo numerico, impiegate a inizio millennio esclusivamente nella filiera industriale pesante, sono state rapidamente adottate nella produzione di arte, design e architettura.

Questo è dovuto sia alla diminuzione dei costi intrinseci di tali tecnologie sia all’emergere di nuovi strumenti e flussi di lavoro legati alla programmazione delle macchine automatiche [1]. Tra queste ultime, le stampanti 3D hanno visto, negli ultimi anni, un entusiasmo generalizzato, per la versatilità delle applicazioni consentite anche nel campo dell’architettura e delle costruzioni.

Questo ha innescato un processo virtuoso legato alla ricerca sul design dei materiali e sui metodi di costruzione digitali che sta generando grande innovazione, sebbene ancora in forma sperimentale.

Sia per capacità di diffusione sia per i costi contenuti, la stampa 3D può essere considerata oggi una tecnologia consolidata e ben conosciuta in tutti i suoi aspetti tecnici. Esistono stampanti 3D che producono oggetti di buona qualità utilizzando materiali plastici molto diversi tra di loro1: esse sono destinate al mercato consumer e hanno costi decisamente contenuti, anche per la grande diffusione di progetti open-source per lo sviluppo e la programmazione di tali periferiche.

Il settore delle costruzioni, soprattutto se paragonato ad altri settori, nutre ancora qualche riserva a implementare questa tecnologia diffusa e organica  dalla medicina all’industria meccanica di precisione. Tale resistenza, storicamente insita nel settore, vede interessanti aperture proprio in quegli alvei che possono essere considerati i più tradizionalisti, ossia del calcestruzzo e del laterizio.

L’industria legata a tali materiali possiede un background consolidato che consente ai produttori di muoversi nel campo della sperimentazione e della ricerca, ma soprattutto entrambi rivolgono la loro attenzione alle tecnologie di stampa 3D per le loro caratteristiche intrinseche: infatti, ambo i materiali appartengono alla categoria dei fluido-densi, i quali prevedono una serie di particolarità negli estrusori delle stampanti 3D che li accomunano e li spingono a ricercare e innovare.

I polimeri termoplastici sono certamente più facili da stampare in quanto solidificano a temperatura ambiente dopo il loro riscaldamento e non danno particolari problemi di collassi.

Quando invece si depositano strato su strato2 materiali fluido-densi come le miscele d’argilla, attraverso il processo cosiddetto Liquid Deposition Modeling [2], è necessario tenere in considerazione alcune limitazioni dovute alle geometrie, ai collassi, alla manutenzione degli estrusori, all’essiccatura e ai ritiri degli elementi stampati. In questo caso, il mix-design del materiale estruso assume un ruolo fondamentale per ottenere risultati finali immettibili sul mercato in qualità di prodotti.

Stampa 3D e prospettiva storica

Il cosiddetto additive manufacturing, conosciuto anche con la locuzione prototipazione rapida o più comunemente stampa 3D [3], è una tecnica di produzione di manufatti secondo la quale, a partire da un modello tridimensionale generato al computer, il pezzo viene prodotto come successione di livelli orizzontali sovrapposti l’uno all’altro, per addizione di materiale.

La generazione del modello tridimensionale da riprodurre può avvenire per il disegno dello stesso mediante software cad, oppure attraverso operazioni di reverse engineering, ovvero acquisendolo dalla realtà mediante laser scanner o tecniche di tomografia.

Come tutte le più rivoluzionarie innovazioni, anche la Stampa 3D affonda le sue radici più indietro di quanto non si pensi; già nel 1859, François Willeme, fotografo e scultore francese dimostra una tecnologia molto simile alle moderne scansioni 3D, fotografando contemporaneamente un soggetto con 24 macchine fotografiche disposte a raggiera e riproducendo un busto tridimensionale3, mentre è del 1892 il primo brevetto per la creazione di stampi per mappe topografiche tridimensionali ottenuti per sovrapposizione di strati di materiale4 a opera di Joseph E. Blanther [4].

Quasi un secolo dopo, nel 1980, Hideo Kodama del Nagoya Municipal Industrial Research Institute, descrisse per la prima volta delle tecniche che consentivano la concentrazione di fasci di luce, UV o laser, all’interno di una vasca contenente una particolare resina foto indurente.

Si erano gettate le basi per due delle tecniche di stampa 3D più importanti, la fotopolimerizzazione e la stereolitografia. A tale descrizione non seguì il brevetto, che fu depositato pochi anni dopo, nel 1984 da Jean-Claude Andrè (Cnrs), Alain le Méhauté (Cge/Alcatel) e Olivier de Witte (Cilas).

Nel 1986, Chuck Hull perfeziona ancora il metodo [5] oltre a brevettare un formato di file standard, con estensione *.stl, che ancora oggi viene utilizzato dalle più comuni stampanti 3D.

Da quel momento in poi l’accelerazione della ricerca è stata fortissima: nel 1986, Carl Deckard, Joe Beaman e Paul Forderhase svilupparono la sinterizzazione selettiva al laser che sostituiva la resina liquida con una polvere di nylon, con evidenti vantaggi dal momento che il solido, rispetto al liquido, non necessita di contenitori. Si poteva utilizzare qualsiasi polvere, conferendo maggiore o minore densità al prodotto stampato5.

Alla fine degli anni Ottanta, Scott Crump brevetta la stampa per deposito di materiale fuso6, oggi impiegata in maniera diffusa.

Gli anni Novanta sono quelli in cui muove i passi la ricerca universitaria: nel 1993, il Mit sviluppa una stampante 3D a getto d’inchiostro, il cui ugello provvedeva alla fuoriuscita di materiale in polvere depositato strato per strato fino alla creazione dell’oggetto e nel 1995 il Fraunhofer Institute Ilt di Aachen introduce il processo di fusione laser selettiva in cui gli strati erano composti da polvere di metallo che veniva fusa da un raggio laser.

Infine, gli anni Duemila vedono la diffusione di massa delle stampanti 3D. Nel 2004 parte il progetto open-source RepRap la cui idea di fondo era che una stampante 3D potesse replicare sé stessa e favorire la propria diffusione.

Nel 2008 nascono le prime piattaforme di filesharing sulle quali caricare un modello per renderlo disponibile per la community e poterlo stampare e un anno dopo inizia la diffusione dei primi kit in scatola di montaggio con i quali chiunque è in grado di costruire la propria stampante 3D casalinga a costi decisamente contenuti soprattutto se paragonati alla qualità di stampa.

L’ultimo decennio vede la grande industria e la ricerca privata interessarsi al fenomeno, con particolare riferimento a quella aeronautica. Nel 2011 viene realizzato dalla Southampton University il Laser Sintered Aircraft un velivolo completamente stampato in 3D che può essere assemblato senza l’utilizzo di attrezzi, ma solo sfruttando degli incastri, e nel 2014 l’AirBus deposita il brevetto per la stampa 3D della struttura di uno dei suoi aerei.

Classificazione dei processi di stampa e impiego nell’industria del laterizio

Operare una classificazione dei processi di stampa può rivelarsi un’operazione complessa. Una delle prime classificazioni potrebbe essere per materiale impiegato, tuttavia, questa rischia di risultare poco significativa, sia perché alcune stampanti riescono a processare materiali differenti sia perché i processi di stampa per materiali appartenenti alla stessa famiglia, ma fortemente variabili per prestazioni offerte, sono del tutto simili.

Analogamente, si potrebbe operare una classificazione in funzione degli oggetti stampati, ma la gamma possibile è così eterogenea che questo può diventare impossibile, oltre che inutile dal momento che oggetti di tipologia e/o dimensione differente possono essere stampati con analoghi procedimenti e strumenti.

Infine, una classificazione per fonte di energia impiegata per operare l’eventuale fusione del materiale o il suo incollaggio strato per strato, così come una classificazione per tipologia di strato (lamine, polveri, o filamenti depositati) rischiano di essere troppo specifiche o al contrario troppo generiche.

Ai fini della nostra trattazione può essere utile operare una classificazione in funzione dello stato in cui si trova il materiale quando esso va a comporre i differenti strati della stampa 3D. Pertanto, si possono distinguere i seguenti processi [5]:

deposito di materiale fuso, liquido o semisolido (fluido-denso) (deposit of fuse/liquid (semisolid/fluid-dense material); si tratta del processo più comune secondo il quale un estrusore, in grado di muoversi nello spazio, deposita il materiale su differenti strati in successione. Trattandosi di materiale fuso o liquido, ciascuno strato non possiede una grande capacità di portare lo strato immediatamente successivo. Pertanto, spesso vengono stampati anche dei supporti che poi vengono rimossi (Fig. 1);

incollaggio di materiali granulari (bonding of granular material); tali processi di stampa prevedono che vi sia del materiale granulare disposto all’interno di una matrice e che questo venga “incollato” o meglio fissato in maniera selettiva, strato per strato. La principale differenza con il metodo precedente risiede nell’assenza totale di supporti (Fig. 2);

fotopolimerizzazione di materiale liquido; il principio di funzionamento di tali processi di stampa accomuna quelli in cui il materiale è un polimero che si indurisce in presenza di luce concentrata. Quello che cambia è la sorgente luminosa, dai laser alle lampade a ultravioletti, dalle sorgenti volumetriche alle lampade con ottiche permeabili all’ossigeno, etc. Il grado di precisione di tali strumenti, da cui dipende la risoluzione di stampa, è di gran lunga il più elevato, ma è di tutta evidenza che anche i costi ne conseguono (Fig. 3).

Attualmente, le prime due tecniche sono quelle sulle quali si esegue la più ampia sperimentazione per l’impiego con materiali argillosi e ceramici. Le tipologie di stampanti più comunemente impiegate sono le seguenti:

stampante cartesiana: in generale l’estrusore si muove lungo gli assi x e y, mentre il piatto sul quale verrà formato l’oggetto si muove lungo l’asse z7;

stampante delta: non vi sono più 3 assi nelle direzioni ortogonali, ma tre assi paralleli che muovono contemporaneamente l’estrusore: quello che lo muove più in alto lo devia dalla propria parte;

stampante polare; l’estrusore si muove secondo le due coordinate polari, riducendo la complessità del sistema poiché necessita di un motore in meno;

braccio robotico; consente di movimentare estrusori di grandi dimensioni e coprire grandi luci per realizzare pezzi di dimensioni notevoli, sperimentalmente anche interi fabbricati (Fig. 4).

La stampa 3D di materiali argillosi è del tutto simile alla più comune stampa 3D di polimeri. La differenza risiede nel fatto che non vi è bisogno di un estrusore che scaldi fino a fondere il filamento di polimero, spinto da sistemi meccanici, ma il materiale, già allo stato fluido-denso, viene spinto a pressione all’interno dell’estrusore dotato di cilindro e stantuffo.

Casi di studio

Datato 2012, l’esperimento Building Bytes è diventato oggi una realtà imprenditoriale consolidata con sede a Pittsburgh (Usa). L’ideatore del progetto è Brian Peters, artista, designer e artigiano come si definisce egli stesso, con la passione per le intersezioni tra arte, architettura, programmazione informatica e tecnologie auto-costruite.

Egli paragona questi contrasti a quello che tiene in equilibrio il gusto estetico contemporaneo e la naturalità dell’argilla. Il progetto Building Bytes nasce durante i lavori del workshop annuale, della durata di 6 settimane, tenuto dall’European Ceramic Work Centre ad Amsterdam.

In quell’occasione, Peters sviluppò non solo una serie di blocchi in ceramica utilizzabili per comporre elementi di vario genere, ma un vero e proprio sistema di produzione, del tipo “a deposito di materiale fluido-denso” basato sull’impiego di stampanti 3D portabili (Fig. 5), modificate nell’estrusore per rilasciare strati di un comunissimo impasto per elementi ceramici.

La modifica all’estrusore determina la risoluzione, che non può scendere sotto un certo limite, dal momento che, per la densità del materiale, questo potrebbe intasarsi. Per un equilibrio simile anche la velocità di stampa risulta condizionata. Nel caso in esame ciascun blocco viene stampato in un tempo approssimativo di 15-20 minuti e lo spessore di ogni strato è di 2 mm.

Per volontà dell’ideatore, i blocchi non sono tutti uguali tra di loro, ma, mediante progettazione parametrica, a ciascun blocco viene imposta una piccola difformità, ogni qual volta riparte la stampa, quasi come se ogni elemento fosse unico, come il prodotto di una bottega artigiana.

I blocchi realizzati con questo sistema (Fig. 6) sono impossibili da realizzare con gli estrusori della normale filiera, e molto complessi per stampaggio. Le tipologie (Fig. 7) sono sostanzialmente le seguenti [6]:

blocchi a nido d’ape. Con la possibilità di essere posati nelle tre direzioni, grazie alla loro modularità, offrono differenti gradi di permeabilità alla luce. Sono studiati per realizzare pareti di divisione o brise soleil;

blocchi ondulati. Richiusi su sé stessi, servono soprattutto a creare colonne e pilastri. La parte ondulata può formare, per la sovrapposizione dei blocchi, disegni complessi, coniugando la parte portante con quella decorativa;

blocchi a “X”. Servono per la creazione di diaframmi opachi minimizzando l’impiego di materiale, la loro forma a X crea dei vuoti di grandi dimensioni nella parete e determina una superficie ondulata all’estradosso;

blocchi a incastro. Servono a creare elementi più complessi come archi o volte a botte.

Molto più recente (2017) è il Ceramic Constellation Pavillion, realizzato nell’ambito di un progetto di ricerca della Facoltà di Architettura dell’Università di Hong Kong, finanziato da Sino Group, società di Hong Kong che si occupa di Real Estate e grandi ristrutturazioni.

Primo nel suo genere, il padiglione è realizzato con 1.870 blocchi di laterizio stampati in 3D con la tecnica del deposito di materiale fluido-denso (Fig. 8). In particolare, tra tutte le tecniche che fanno parte di questa categoria, quella impiegata è la cosiddetta Direct Ink Writing ovvero “scrittura a inchiostro diretto”, che permette di depositare il materiale fluido-denso, chiamato inchiostro per assonanza con le stampanti 2D, sempre su diversi strati non a partendo da un modello tridimensionale, ma da un percorso bidimensionale ripetuto nello spazio.

Questo ha garantito una grandissima semplicità di elaborazione della morfologia da parte del processore che ha guidato la stampa, velocizzando notevolmente i tempi di realizzazione di ciascun blocco [7].

La stampante utilizzata è del tipo “a braccio robotico” (Fig. 9) non tanto per la dimensione di ciascun elemento, quanto per la possibilità di prescindere dalla dimensione e procedere alla stampa di una serie di elementi su uno stesso piano di lavoro8 [7].

Ciascuno di questi blocchi è completamente aperto e, non presentando setti intermedi, genera effetti di trasparenza e opacità in funzione della posizione dell’osservatore (Fig. 10). L’altezza del padiglione è di 3,8 m su 2,5 m2 di superficie, e i blocchi sono sostenuti da una sottostruttura la cui ossatura si dispone strato per strato e alla quale i blocchi si ancorano nascondendola parzialmente alla vista (Fig. 11).

Per arrivare alla progettazione di un oggetto la cui percezione nello spazio fosse sempre diversa, il gruppo di lavoro ha lavorato su una superficie complessa che funzionasse essa stessa da dispositivo di controllo della posizione degli elementi.

Essa è stata progettata come una griglia tridimensionale che, con una particolare tecnica di estrusione di una curva, genera un impianto spiraliforme all’interno del quale ciascun punto corrisponde alla posizione esatta di un blocco. La superficie, presenta minime variazioni di posizione incrementali in alzato e non vi è mai una porzione uguale a un’altra [7] (Fig. 12).

Tale superficie poteva essere realizzata esclusivamente mediante l’impiego di software per la progettazione parametrica, grazie ai quali è stato possibile individuare una posizione del blocco nello spazio, ma anche il suo assetto che risulta differente da blocco a blocco e fa in modo che la superficie cambi di continuo, trasformandosi da una rigata a una superficie a doppia curvatura e passando senza soluzione di continuità da una faccia interna a una esterna [7]. Questo contribuisce alla sensazione di permeabilità variabile che è insita nel concept di questo padiglione.

Una delle particolarità risiede proprio nel fatto che il padiglione va in forte controtendenza rispetto al mainstream che si muove verso la standardizzazione sfrenata: i blocchi che compongono il padiglione sono dichiaratamente non standardizzati.

Per la realizzazione del padiglione sono stati impiegati circa 700 kg di argilla, e ciascuno dei blocchi è stato stampato in un tempo variabile da 2 a 3 minuti. Infine, dopo aver fatto riposare ciascun elemento per 24-36 ore alla temperatura approssimativa di 22°C, la cottura è avvenuta per un periodo di tempo medio lungo alla temperatura massima di 1.025°C.

L’assenza di setti di irrigidimento interni al blocco ha comportato una prevedibile deformazione sul piano orizzontale, chiamata dai ricercatori “effetto banana” per il tipico imbarcamento simile al frutto (Fig. 13).

Come si può immaginare, tale deformazione è tanto maggiore quanto è maggiore la dimensione dell’elemento, tuttavia, si è rilevato che variazioni di velocità di stampa e la maggiore altezza hanno contribuito alla deformazione anche verticalmente.

I migliori risultati sono stati ottenuti a velocità di stampa costante e per blocchi dalle dimensioni più contenute o quantomeno omogenee tra di loro [7]. Anche gli inevitabili errori umani hanno contribuito alla cattiva riuscita di alcuni pezzi: nel caricare l’argilla nell’estrusore, si è verificata la presenza di bolle d’aria con la conseguenza che la stampa è stata interrotta e ripresa, inficiando la continuità produttiva che è essenziale per l’omogeneità dell’elemento stampato.

La produzione ha richiesto un tempo di 3 settimane, e si è svolta nel laboratorio di robotica dell’Università di Hong KongL’assemblaggio è avvenuto nell’arco di tempo di 10 giorni durante un workshop organizzato coinvolgendo gli studenti.

Il tutto è stato coordinato dagli architetti Christian J. Lange, Donn Holohan e Holger Kehne, mentre il progetto strutturale è di Goman Ho e Alfred Fong della sede di Hong Kong di Ove Arup, e ha dato il via al seminario annuale di Sino Group mirato a indagare le potenzialità della robotica nella progettazione e costruzione d’Architettura.

Il padiglione è stato collocato dal 19 giugno al 6 luglio 2017 nell’ingresso nord della Città Olimpica West Kowloon a Hong Kong, poi è stato trasferito nel campus dell’Università [8].

13. Variazioni morfologiche di uno degli elementi del padiglione.
a) sovrapposizione della geometria stampata e di quella progettata, b) imbarcatura dei blocchi dopo la cottura, c) grafico per la valutazione della deformazione del blocco.

Limiti e prospettive future

In un futuro prossimo, i processi di stampa 3D potrebbero affiancare efficacemente le tecniche di formatura attuali degli elementi in laterizio. Le fasi di estrusione e stampaggio prevedono già l’impiego di macchine automatiche negli stabilimenti, ma l’introduzione in filiera di macchine per la stampa a braccio robotico potrebbe provocare l’analoga rivoluzione che tale introduzione ha portato nella catena di montaggio delle automobili.

È ancora necessario operare ricerca e sperimentazione con lo scopo di stabilire il corretto equilibrio tra fase di stampa, mix design del materiale e le altre fasi del processo di produzione: conciliare velocità di stampa di ciascun pezzo, con la complessità di forma dettata dalla presenza di irrigidimenti che evitino ritiri inaspettati in cottura è di fondamentale importanza se si intende proporre tale processo di formatura come alternativo a quelli abituali.

Inoltre, garantire la stabilità dei pezzi quando essi sono allo stato verde, è possibile solo entro le ridotte dimensioni a cui ci si è attenuti finora, oppure utilizzando additivi come gli alginati9, al mix design dell’impasto d’argilla, come alcuni recenti studi hanno dimostrato [9].

Tuttavia, nel caso del processo di produzione del laterizio, a differenza del settore automotive, la possibilità di produrre, sulla stessa linea, elementi completamente differenti l’uno dall’altro, senza dover modificare stampi o trafile, apre la porta alla realizzazione di pezzi speciali al costo dei pezzi ordinari, offrendo ai progettisti una grandissima libertà compositiva, favorendo così la diffusione dei manufatti.

di Adolfo F. L. Baratta, Professore Associato, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre

Laura Calcagnini, Ricercatore RTA, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre

Antonio Magarò, Ph.D., Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre

Note

1. Le stampanti 3D più comuni oggi riescono a stampare materiali polimerici diversissimi tra di loro per prestazioni, dall’ABS al PLA al PET alimentare.

2. Il processo di stampa 3D viene chiamato “Additive Manufacturing” a intendere che la creazione di oggetti avviene per aggiunta di materiale depositato su uno strato di altro materiale.

3. La macchina creava una serie di sezioni orizzontali a partire dai profili rilevati dalle macchine fotografiche. Tali sezioni erano riprodotte comprimendo del materiale all’interno di un cilindro. Al termine delle operazioni, il cilindro portava impressa l’immagine tridimensionale del soggetto e poteva essere scolpito o inciso chimicamente per ricavare il busto.

4.   La tecnica prevedeva l’incisione delle curve di livello su lastre di materiale plastico. Una volta ritagliate e sovrapposte tra di loro, mediante cottura adeguata fornivano il negativo per la stampa tridimensionale del rilievo topografico.

5.   Qualcosa di molto simile era stato depositato nel 1979 da un certo Housholder che però non procedette mai alla creazione e commercializzazione di una macchina in grado di operare.

6.  La tecnica è chiamata Fused Deposition Modeling (FDM) e prevede l’impiego di una macchina non particolarmente costosa. La sua diffusione attuale dipende anche dal fatto che il brevetto è scaduto nel 2009.

7.  Sono molto diffuse anche le cartesiane invertite, in cui l’estrusore si muove sull’asse z e il piatto sugli assi x e y. Molto utilizzato nel caso di materiale fuso a bassa temperatura (polimeri) meno usato per materiali fluido-densi che subirebbero deformazioni nel movimento.

8.  L’estrusore impiegato è un Deltabots linear ram con una capacità di 5.500 ml di materiale. Questo è stato movimentato da un braccio robotico di tipo industriale standard ABB 6700 capace di portare fino a 200 kg di carico in un raggio di 3 m.

9.  Gli alginati sono particolari biopolimeri, sottoforma di sali, estratti dalle alghe marine.

Riferimenti bibliografici

[1] M. Bechthold, A. Kane, N. King, Ceramic Material Systems, Birkhäuser Verlag, Basel, 2015.

[2] P. Fastermann, 3D-Drucken. Wie die generative Fertigungstechnik funktioniert, Springer, Berlin/ Heidelberg, 2014.

[3] I. Gibson, D. W. Rosen, B. Stucker, Additive Manufacturing Technologies vol. 238, Springer, New York, 2010.

[4] M. Anni, 3D Printing: analisi della tecnologia e studio delle potenzialità del mercato, Scuola di Ingegneria Industriale e dell’Informazione, Politecnico di Milano, Milano, 2016.

[5] I. Paoletti, L. Ceccon, The evolution of 3D printing in AEC: from experimental to consolidated techniques, in Dragan Cvetković (ed.) 3D Printing, IntechOpen, disponibile da: www.intechopen.com/books/3d-printing/the-evolution-of-3d-printing-in-aec-from-experimental-to-consolidated-techniques Consultato il 18.08.2019.

[6] B. Peters, Building Bytes: 3D-printed bricks, in F. Gramazio, M. Kohler, S. Langenberg (eds.), Fabricate 2014: Negotiating Design & Making, UCL Press, London, 2015, 112-119.

[7]  C. J. Lange, D. Holohan, H. Kehne, Ceramic Constellation. Robotically printed brick specials, in J. Willmann, P. Block, M. Hutter, K. Byrne, T. Schork (eds.) Robotic fabrication in Architecture, Art and Design 2018, Springer, New York, 2019, 434-446.

[8]  Treehugger, 3D printed terracotta brick tower explores robotics in architecture, 2017, disponibile da: www.treehugger.com/sustainable-product-design/3d-printed-terracotta-brick-tower-university-hong-kong.html Consultato il: 18.08.2019.

[9] A. Perrot, D. Rangeard, E. Courteille, 3D printing of earth-based materials: processing aspects, Constructions and Buildings Materials, 172, (2018), 670-676.

[10] V. Borrelli, Kinematic and dynamic analysis of machine for additive manufacturing, Master’s Degree in Mechatronic Engineering, Politecnico di Torino, Torino, 2018.

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