Punti di Vista | Arch. Moreno Pivetti | Founder MPA Architecture

L’esperienza del ‘Case Study House Program’: un invito a sperimentare nell’età del riorientamento

L’empirismo che sottende il ‘Case Study House Program’ ripropone per l’avvenire una convergenza ontologica tra disegno e produzione: tramite modelli di economia funzionale, di chiarezza distributiva e formale, di qualità estetica integrata all’utilità,  di civile e democratico rispetto per l’utente, “non propone di risolvere il problema edilizio nell’ambito della grande industria, ma di far nascere un’industria per la casa, cioè per la vita”.
Arch. Moreno Pivetti | Founder MPA Architecture
Punto di Vista | Arch. Moreno Pivetti | Founder MPA Architecture.

La ragione storica del Razionalismo europeo, in architettura, viene assorbita e normalizzata dal Modernismo americano di metà Novecento, che consolida le spinte rivoluzionarie e progressiste in processi metodologici, la proiezione dell’avvenire in pianificazione e progettazione.

I punti chiave del movimento – di cui il ‘Case Study House Program’ rappresenta soltanto uno, non l’unico, degli episodi più significativi – sono:

  1. la promozione dell’architettura e della produzione industriale a mezzi dell’esperienza vitale;
  2. la riduzione delle singole tecniche all’unità metodologica della programmazione e della produzione;
  3. l’integrazione di qualità estetiche a tutti i prodotti industriali, intesi come ‘drivers’ della comunicazione e dell’educazione sociale;
  4. l’impiego e l’impegno totale di architetti e produttori nel campo della sperimentazione edilizia ed industriale e diffusione dei risultati tramite la pubblicistica;
  5. non già l’eliminazione bensì l’educazione al mercato, ritenuto agente e strumento formativo di una società democratica;
  6. il pragmatismo e l’empirismo produttivo come caratteri distintivi di una civiltà in cerca di autorappresentazione e di una nuova identità culturale;
  7. l’affermazione di un’economia della produzione orientata ad un’economia estetica del risultato finale.

L’architetto ha il dovere di procurare alla società una condizione ‘naturale’ e nello stesso tempo ‘razionale’ di esistenza, ma senza arrestare lo sviluppo tecnologico, perché il destino naturale della società è il progresso” (G.C. Argan).

Nell’ambito di questa, che possiamo definire l’etica fondamentale o la deontologia dell’architettura moderna, si distinguono molteplici indirizzi e impostazioni problematiche, diversamente declinabili in funzione dei contesti sociali e culturali.

Già a partire dal 1934 Walter Gropius, chiamato a insegnare alla Harvard University negli Stati Uniti dopo aver lasciato nel ’28 la direzione della Bauhaus, disegna con Konrad Wacshmann un sistema di prefabbricazione integrale, il ‘Packaged House System’ per la General Panel Corporation (1942), un sistema di pareti prefabbricate in legno, prodotte industrialmente al fine di realizzare case unifamiliari assemblabili in sole otto ore da cinque operai specializzati.

Di lì a poco seguirà il ‘Mobilar Structur’ (1944-45), per la ‘Atlas Aircraft Corporation’, sviluppo di superfici parietali mobili in acciaio, in grado di frazionare ampie coperture, una ricerca che troverà il suo canto più alto nel prototipo sviluppato su incarico dell’Usaf (1951): un sistema strutturale reticolare spaziale a sviluppo tetraedrico, realizzato in tubi di acciaio convergenti in un nodo universale in grado di alloggiare fino a 20 aste.

Wacshmann matura una ricerca rivolta a individuare quello che potremmo chiamare ‘l’atomo costruttivo’: uno, al massimo due elementi (un’asta e un giunto nodale) con i quali è possibile qualsiasi combinazione. Semplice e rapido come un ‘meccano’, il montaggio a secco definisce le nuove frontiere della costruzione: bruciato ogni residuo di monumentalità sull’altare del puro  assemblaggio, si apre la libertà di tessere e articolare spazi aperti a qualsiasi configurazione.

L’applicazione della tecnologia in serie trova la sua più lirica espressione nell’opera di Mies van der Rohe, l’architetto “che si misura con la scienza e la tecnica del proprio tempo” elevandole ai vertici di una colta eleganza. Mies si è conservato poeta applicando la tecnologia della produzione in serie, tanto a scala urbana (‘Esplanade Apartments’, Chicago, 1956) quanto alla scala domestica (‘Farnworth House, River Road, Chicago, 1945-51).  Al di là del progetto non c’è che la produzione meccanica degli elementi e il loro montaggio: l’opera dell’architetto, quindi, si compie nella previsione e nel dominio di tutte le fasi della costruzione.

Case Study House Program

Tra gli episodi più dinamici e visionari dell’architettura americana – e in particolare californiana – della metà del Novecento, emerge il Case Study House Program, un movimento di ricerca di modelli residenziali sperimentali a basso costo, promosso dalla rivista Arts & Architecture (tra il 1945 ed il 1966) in risposta alla carenza di alloggi e al boom edilizio del secondo dopoguerra.

Nel “Announcement” lanciato dall’editore dell’epoca, John Entenza, nel gennaio 1945, il Csh Program si propone come un ”un sincero tentativo non solo di anticipare, ma di aiutare a dare una direzione al pensiero creativo sull’edilizia abitativa svolto da bravi architetti e bravi produttori il cui comune obiettivo è una buona abitazione”.

Otto architetti di fama nazionale, scelti non solo per il loro evidente talento, ma per la loro capacità di valutare realisticamente l’abitazione in termini di necessità, sono incaricati di progettare e costruire case convenienti, moderne ed efficienti, “concepite nello spirito dei nostri tempi, utilizzando per quanto possibile, molte tecniche e materiali nati dalla guerra più adatti all’espressione della vita dell’uomo nel mondo moderno”.

Disegnate inizialmente come prototipi per ipotetici clienti, le trentasei case incarnano l’espressione semplice e diretta della domanda abitativa di persone di mentalità moderna che desiderano affrontare i loro problemi di vita su base contemporanea.

Improntati alla massima efficienza spaziale e funzionale, tutti i prototipi convergono verso un comune vocabolario espressivo: uso di materiali semplici e industriali, massima esposizione al sole, ventilazione incrociata degli ambienti e protezione dai venti prevalenti; ancora, annullamento del senso di separazione tra interno ed esterno, con patii e “giardini viventi” incorporati come fossero il cuore della vita sociale della famiglia; largo uso di materiali e prodotti derivanti dall’industria, testati e scelti per offrire il “miglior rapporto qualità-prezzo”; uso diretto, efficiente ed economico di metodi e materiali costruttivi tecnologicamente avanzati per massimizzare il grado di flessibilità da parte dell’utente e la facilità di manutenzione; soddisfacimento onesto e sincero di bisogni reali.

Non sorprende che il Case Study House Program trovi terreno fertile proprio negli Stati Uniti, in un paese, cioè, dove l’individuo ha possibilità illimitate, ciascuno porta nella nuova impresa industriale lo spirito d’avventura dei ‘nativi’ pionieri, in un paese in cui la libertà è la possibilità riconosciuta ad ogni individuo di definire in modo diretto e personale il proprio rapporto col mondo.

La casa non dev’essere uno spazio dato e rigidamente suddiviso, che condiziona l’esistenza; dev’essere piuttosto il tramite di un contatto con la realtà, in cui ciascuno realizza sé stesso.

Conseguenze sul piano formale: eliminazione della “scatola” spaziale (“destroy of the box”), riduzione delle generatrici formali alle orizzontali e verticali e all’intersezione di piani, pianta liberamente articolata, annullamento delle separazioni tra spazio interno ed esterno, armonizzazione dell’edificio all’ambiente naturale.

Ora la tesi che vuole dimostrare implicitamente il Case Study House Program, sul piano del mercato delle costruzioni e della produzione edilizia, è come da nuove dinamiche produttive – quali la prefabbricazione e la standardizzazione delle componenti costruttive – possano nascere oggetti tutt’altro che standard, che soltanto la ‘ratio’ del progettista saprà elevare a prodotti unici.

La nuova alleanza tra industria e prodotto artistico (“Arte e Tecnica: una nuova unità”, parafrasando W. Gropius) converge verso l’aspirazione lincolniana di una di una civiltà integralmente democratica: la produzione seriale è inclusiva, poiché può garantire alti standards qualitativi rendendoli accessibili a un numero sempre maggiore di individui.

Non si nega il ruolo dell’architetto, rafforzato, anzi, nel suo impegno civile di coordinare fattori e risultati della produzione per arricchire il benessere delle persone, un tecnico-umanista chiamato a garantire “una qualità davvero altissima a un costo davvero bassissimo”.

Ma se l’offerta sempre più sconfinata di un’industria sempre più progredita stimola la personalizzazione del prodotto – fino a identificarlo come ‘unicum’ – ne deriverà un mercato delle costruzioni sempre più elastico, parimenti capace di rispondere alla crisi di alloggi del ceto medio come di nutrire l’esigenza di autorappresentazione del magnate che del progresso stesso è paladino e promotore.

Così l’industria, oltre a rispondere alla produzione di massa e al mercato edilizio, ridefinisce altresì il mercato dell’arte: la casa e gli oggetti di design che vi trovano dimora diventano pezzi unici dotati di un plus-valore intrinseco, opere d’arte tra i prodotti di massa come fossero originali greci tra copie di statue romane.

In quanto prodotti unici del mercato delle costruzioni, hanno titolo a recitare come attori protagonisti nei film dell’epoca, dietro l’occhio vigile del cinematografo di Hollywood o dietro l’obiettivo raffinato dei più celebri fotografi, Julius Schulman su tutti: diventeranno le icone di metà Novecento, il cui valore artistico è dato dal loro potere di rappresentare e celebrare un’epoca, di descrivere la dimensione spirituale di una civiltà industriale autenticamente democratica.

In tutto questo l’architetto ridefinisce il suo ruolo di umanista come agente del progresso, è un tecnico che con il lessico dell’industria riscrive il futuro della società, è colui che disegna per Tutti.

Nella Study House #22 (disegnata da Pierre Koenig nel 1959) il Signor Stahl, dal suo nido arroccato alle pendici di Hollywood si astrae dal caos metropolitano di Los Angeles: ma anche lì dove ogni centimetro quadrato vale una fortuna, costruisce parlando la lingua dell’industria, che ben presto diventerà l’idioma della Modernità. È il volto pragmatico e genuino della nascente civiltà del progresso, quella stessa civiltà che si sveste del peso delle sovrastrutture storicistiche per sposare la causa dello spirito moderno.

Una chiamata all’azione per le sfide contemporanee

Oggi, la particolare congiuntura economica, ecologica e culturale che stiamo vivendo invita tutti – progettisti, produttori, imprese – a ricercare  nell’eredità di cui il Case Study House è depositario un vero e proprio invito all’azione (“call-to-action”), ripercorrendo le seguenti lezioni.

1.   Case Study Homes come laboratorio per educare al valore dell’architettura e della costruzione. Durante il suo corso, il programma ha dimostrato come progetti innovativi e ben realizzati contribuiscano a promuovere l’architettura come un’arte alla portata di tutti. Le prime 6 Csh sono state visitate nei primi soli 2 anni da ben 370.000 persone, animate dai ritrovati di un’industria colta e raffinata.

2.   Soluzioni reali a problemi reali. La razionalità dell’espressione architettonica è intesa come deduzione logica di esigenze obiettive. Proprio come la carenza di alloggi ha dato impulso al Csh Program nel 1945 – all’indomani della seconda guerra mondiale – promuovendo soluzioni economicamente sostenibili ed adattabili ad esigenze comuni, così nel futuro immediato una serie di questioni latenti e contingenti richiederà intrinsecamente grande potenza creativa da parte di progettisti e produttori.

Dalla ricostruzione di città cancellate da calamità naturali e umane alla migrazione verso le nuove frontiere di uno sviluppo globale (si stima la nascita di una città di un milione di abitanti a settimana per i prossimi vent’anni), per non trascurare la revisione del patrimonio esistente verso un’ecologia sostenibile, sono soltanto alcuni dei problemi reali di già stringente attualità.

Inoltre, operare nella scarsità di mezzi e in contesti disagiati spinge il mondo del progetto e dell’industria verso forme e modalità virtuose di programmazione e coordinamento tali da non soffocare, anzi stimolare, una grande energia operativa.

3.  Il valore della pelle finanziaria in gioco. Prefabbricare un edificio significa pianificarne qualsiasi componente costruttiva in termini di tempi e costi realizzativi. Comprendere il costo reale della costruzione e verificarlo con l’impegno finanziario prefissato rappresenta l’opportunità di operare variazioni a monte del processo produttivo, evitando imprevisti e operando in coerenza con le risorse disponibili. Sempre più prodotto dell’industria, il progetto può essere misurato nel suo ‘skin in the game’ (‘pelle finanziaria’), al pari di qualsiasi suo dettaglio costruttivo.

Sebbene fondato sul patto fiduciale committente-progettista, il processo di design di un prodotto dell’industria consente di misurare il risultato già in fase di prototipazione e, quindi, formularne rapidamente un giudizio di valore.

4.  Il Perfetto contro il Buono. Poiché il progetto non è un gioco a somma zero, spesso la ricerca per raggiungere un alto livello di personalizzazione si è dimostrata nemica del budget. L’ampia flessibilità che contraddistingue una ‘Study Home’ si è rivelata vincente nella sua capacità di adattarsi a esigenze e utenti futuri.

Inoltre le Study Houses, nate dapprima per rispondere alla domanda di alloggi con soluzioni a basso costo, nell’arco di un decennio sono diventate le icone della nascente borghesia dei consumi, trasformandosi da prototipi replicabili in pezzi unici.

5.  Promuovere un’Etica della Sperimentazione. Provare nuove modalità di vita, materiali innovativi e sistemi costruttivi efficienti riflette l’Ethos del Csh Program. Se convincenti, i risultati della ricerca potranno essere incorporati in futuri processi di produzione; se non ancora maturi, viceversa, suggeriranno in quale direzione deviare. In entrambi i casi, il processo empirico indica la direzione, la “driving force” della sperimentazione.

6.  La ricerca di un’estetica dell’economia. Si degraderanno gli architetti dal loro rango di intellettuali per diventare tecnici dell’industria? Fin dal tempo della Bauhaus molti artisti si sono mostrati pronti ad accettare un nuovo e meno prestigioso servizio sociale. Il circolo della produzione e dei consumi non è destinato a strumentalizzare o annullare la ricerca estetica; viceversa, concorre alla formazione di progettisti dialetticamente e consapevolmente impegnati nella ricerca di uno stile di vita – e non solo di uno styling – che possa esprimere e affermare una civiltà inclusiva. Può affermarsi così un’estetica dell’economia, intesa come convergenza del valore artistico e spaziale all’intrinseca funzionalità economica dell’architettura.

7. Ecologia e Giustizia Sociale nel mondo del riorientamento. Nel XX secolo l’editoria popolare e le grandi esposizioni proiettano il pubblico nel futuro “reso possibile dalla scienza moderna e dalle nuove efficienze del mercato”. La crociata verso il nuovo mondo è guidata dalla casa moderna, che la visione taylorista vuole “meccanizzata e sistematizzata ai ritmi dell’efficienza”. Ora che quella “Età del Progresso” sembra aver bruciato i propri furori sull’altare di un’opulenza materiale, la rivoluzione ecologica che stiamo vivendo ci esorta a “ripensare la nostra esistenza su una Terra che si rinaturalizza (Jeremy Rifkin)”, proiettandoci in un avvenire in cui la vera efficienza dell’abitare sarà misurata dalla sua qualità di conservare il capitale ecologico affinché resista come patrimonio di una nuova civiltà paricratica.

Quando scegliamo di educare, rendendo il nostro lavoro quotidiano un caso-studio istruttivo, tutti possiamo trarne vantaggio. In questo modo, l’architettura può mantenere la premessa e la promessa di soluzioni abitative di “buona” qualità adatte “all’espressione della vita dell’uomo nel mondo moderno”.

L’empirismo che sottende il ‘Case Study House Program’ ripropone per l’avvenire una convergenza ontologica tra disegno e produzione: tramite modelli di economia funzionale, di chiarezza distributiva e formale, di qualità estetica integrata all’utilità,  di civile e democratico rispetto per l’utente, “non propone di risolvere il problema edilizio nell’ambito della grande industria, ma di far nascere un’industria per la casa, cioè per la vita”.

di Moreno Pivetti Architetto 
Founder MPA Architecture

Copertina della rivista ‘Arts & Architecture’, gennaio 1945
Case Study House # 8, Pacific Palisades, Charles e Ray Eames (1945-1949)
Case Study House # 8, Pacific Palisades, Charles e Ray Eames (1945-1949)
Case Study House # 21, Bailey House, West Hollywood, Pierre Koenig (1958-1960)
Case Study House # 21, Bailey House, West Hollywood, Pierre Koenig (1958-1960)
Case Study House # 21, Bailey House, West Hollywood, Pierre Koenig (1958-1960)
Case Study House # 21, Bailey House, West Hollywood, Pierre Koenig (1958-1960)
Case Study House # 21, Bailey House, West Hollywood, Pierre Koenig (1958-1960)
Case Study House # 22, Stahl House, West Hollywood, Pierre Koenig (1959-1960)
Case Study House # 22, Stahl House, West Hollywood, Pierre Koenig (1959-1960)
Lovell Health House, Los Angeles, Richard J. Neutra (1927-1929)
Lovell Health House, Los Angeles, Richard J. Neutra (1927-1929)

Bibliografia

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  • Rifkin J., “L’età della resilienza. Ripensare l’esistenza su una Terra che si rinaturalizza”, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2022;
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